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«Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere»

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere».
(San Paolo 1Cor 10, 12)

Sono passati più di sette mesi, ed è la prima volta che rimetto piede – letteralmente – su questo ponticello, sulle sue vecchie travi in legno. Sto continuando la fisioterapia e la caviglia non è ancora del tutto a posto (lo sarà, un giorno?...) Cammino piano, e ad ogni passo tornano a galla i ricordi. Aveva piovuto copiosamente tutta la settimana e in questo tratto il fiume era persino esondato, ma il 16 novembre è stata, invece, una giornata bellissima: cielo azzurro e sole. Il legno, i giorni precedenti, si era però impregnato d’acqua e il sole ancora non era riuscito ad asciugarlo, né a seccarne il viscidume.
Voglio ripercorrerlo quel tragitto, anche per fare i conti con la paura, i ricordi, la sensazione che a volte ancora mi prende, di giorno e soprattutto nel cuore della notte, di trovarmi con il piede sinistro su una saponetta, perdere l’equilibrio, vedermi a terra, sola.
Era accaduto proprio così. Camminavo sopra pensiero – sono passata decine di volte di qui, cosa vuoi che mi succeda? – e, neanche il tempo di rendermene conto, una pendenza, il piede che slitta, e mi rivedo lì, seduta a terra come una bambola rotta.
Poi il 118, il Pronto soccorso, i raggi: brutta lussazione della caviglia, frattura della tibia e del perone. E’ necessario l’intervento.
Una scivolata, un incidente di pochi secondi e le conseguenze sono ancora qui, sotto gli occhi e pungoli nella carne. Una placca e delle viti dentro, due cicatrici fuori, il gesso, le stampelle, la fisioterapia che ancora non è terminata, e questa articolazione che non è più – e mai lo sarà – precisa come prima.
Cammino su e giù lungo il ponticello in legno, ma questa volta guardo bene dove metto i piedi, che ormai sono diventati bravissimi a riconoscere anche le pendenze più lievi, e l’indice di aderenza di ogni superficie.
La vita è proprio così. Camminiamo (viviamo!) senza pensarci troppo: cosa vuoi che mi accada? E percorriamo sentieri viscidi, a volte, o in discesa, senza renderci conto che potremmo cadere, senza riflettere sugli esiti delle decisioni che prendiamo, dei passi che facciamo.
La presunzione, spesso, che abbiamo tutto sotto controllo e che, comunque vada, staremo sempre in piedi. Vale per noi, Prometei postmoderni, che forzando il dizionario abbiamo reso desideri sinonimo di diritti e non vogliamo sentire ragioni. Vale per la scienza, che mai prima d’ora era stata così vicina alla cabina di comando: un click ed ecco l’origine della vita, un altro click ed ecco decisa la sua fine; tronfia dei risultati non perde tempo a porsi troppe domande, a interrogarsi sulle conseguenze delle sue ardite (e sempre più discutibili) sperimentazioni.
Vale per la politica, che va dove tira il vento e piovono consensi, e legifera pro questo e contro quello, senza più porsi domande sul vero bene comune.
Vale per la magistratura, che a colpi di sentenze si è arrogata poteri di vita, di morte, di rivoluzione antropologica.
Tutti insieme appassionatamente abbiamo deciso che non esiste più limite, non esiste più l’altro; esistiamo solo noi e le nostre voglie. (L’Altro con la lettera maiuscola l’abbiamo fatto fuori da un pezzo: orfani ci han detto che è meglio e noi – stupidi – anche ci crediamo…)
Poi capita che, quando meno te lo aspetti, cadi; io sono caduta.
Cadi e, a terra, ti accorgi che hai bisogno dell’ambulanza, del Pronto soccorso, dei raggi che ti leggano dentro, di un intervento, di qualcosa che è bene resti lì, a darti sostegno. Poi il gesso per mantenere la posizione diritta e perché le fratture si saldino, poi le stampelle perché da solo proprio non ce la puoi fare, poi ti rimettono in piedi ma serve la riabilitazione, seguita da esperti, poi… poi è un passetto alla volta, guardando bene dove mettere i piedi. Tutto da reimparare.
Come me, come le mie cadute (ahimè frequenti) del corpo e dell’anima, scivola la scienza sulle sue presunzioni, la politica sulla neolingua, la magistratura sul suo delirio di onnipotenza, noi sugli esiti del nostro egoismo. A farne le spese, i più deboli. Spesso i bambini.
Quando cadi e ti fai male davvero, capisci che hai bisogno di aiuto nell’immediato e di sostegno per il futuro. Qualcuno che sappia: un esperto che aggiusti e sia guida.
Ma bisogna avere l’umiltà di chiedere, e umiltà è merce rara in un mondo che scandendo gli slogan «io sono mia» e «homo faber fortunae suae» ci fa credere dio. Ma è come il vino senza uva, i formaggi senza latte, l’olio senza olive. La vita è una cosa seria. Diffidare delle imitazioni.

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