La fantascienza al potere: riprogettare gli esseri umani
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Le incredibili tesi di Stock, scienziato che vuole “riprogettare gli esseri umani”
Gregory Stock – autorevole scienziato, direttore del Programma di Medicina, Tecnologia e Società presso la University of California (Ucla) – ha scritto un libro dal titolo molto molto ambizioso: “Redesigning Humans” (“Riprogettare gli esseri umani”, Milano, Orme, 2004). La sua lettura mi ha suggerito una domanda così impertinente che ho voluto prudentemente collaudarla in un convegno, alla presenza di un certo numero di biologi, per verificare se non facesse rischiare un linciaggio seduta stante. La reazione è stata contrastata ma incoraggiante, e allora oserò riproporla qui. Partiamo da una constatazione. Fino a non molti anni fa, se si fosse chiesto da quale disciplina era rappresentata la “big science” – ovvero quel modo di fare ricerca basato su grandi progetti, con la partecipazione collettiva di un gran numero di ricercatori e l’impiego di grandi mezzi e di finanziamenti imponenti – la risposta ovvia sarebbe stata: la fisica. Oggi, la risposta è: la biologia. Lo scettro della “big science” ha cambiato di mano. Ed ecco la domanda impertinente: la biologia ha le spalle sufficientemente forti per sostenere un simile ruolo? Già, la fisica è stata la “big science” del Novecento, anche perché ha rappresentato la metodologia per eccellenza del fare scienza. Certo, non sono pochi – anche tra i fisici – a rilevare che questa è un’immagine ideale e che spesso, nei grandi programmi di ricerca, ciascuno lavora su una parcella isolata senza sapere gran che di quel che fanno gli altri, senza conoscere davvero il senso del progetto complessivo e senza che il quadro teorico sia trasparente. Resta il fatto che, almeno in linea di tendenza, la ricerca fisica si fonda sull’idea di una stretta interazione tra un nucleo teorico e la verifica sperimentale. Da un lato vi è la fisica teorica, che ricerca e determina le “leggi” – le quali enunciano le regolarità forti e assolute che strutturano la natura – e che costituisce il nucleo direttivo della ricerca e delle applicazioni; e, dall’altro, la fisica sperimentale, fondata su queste leggi e che interagisce continuamente con la teoria. La stretta connessione fra questi due aspetti appare in modo trasparente quando essi si sintetizzano in una singola persona, come nel caso di Enrico Fermi, grande fisico teorico e grande sperimentatore al contempo. Oggi neppure la fisica è la scienza dell’assoluta certezza, l’idea che esistano “leggi” scientifiche è in crisi. Tuttavia, il prestigio della fisica poggia su tanti trionfi vicini e lontani, come quello che emozionò il mondo due secoli e mezzo fa, quando i calcoli basati sulle leggi del sistema dei corpi celesti di Newton permisero di prevedere il ritorno della cometa di Halley per l’inizio dell’aprile 1759, come avvenne puntualmente.
Può dirsi lo stesso della biologia? Rispondere affermativamente sarebbe temerario. E ciò in primo luogo perché non esiste una biologia teorica. Nelle polemiche aspre che ebbe con alcuni biologi, il celebre matematico René Thom ricordava che costruire una scienza teorica significa immergere la realtà in un immaginario controllato: considerare tutti gli stati possibili (virtuali, immaginari) in cui può trovarsi il sistema che stiamo considerando e descrivere tutte le possibili evoluzioni che esso può avere a partire da una data condizione iniziale e in conformità alle leggi cui esso obbedisce. Questa è la condizione perché, almeno in linea di principio, il fenomeno sia prevedibile e anche riproducibile. Ma in biologia non esiste un “virtuale”, salvo che in circostanze limitate; e ciò per un motivo fondamentale: perché i fenomeni biologici si svolgono per lo più nel tempo storico, e quindi non sono prevedibili e riproducibili allo stesso modo dei fenomeni del mondo fisico inanimato, a meno che non si voglia pretendere che esistano delle leggi della storia, il che sposterebbe la sfida a un livello ancor più temerario. Questo è particolarmente vero per le teorie che descrivono processi su scala storica, come la teoria dell’evoluzione. Secondo Thom il comportamento dogmatico di molti darwinisti è probabilmente dovuto al fatto che essi hanno “una consapevolezza implicita del carattere sospetto della teoria”, e cioè del fatto che non si tratta di una vera e propria teoria scientifica. Ne troviamo una conferma nella recente intervista del Nobel James D. Watson, scopritore della struttura a elica del Dna assieme a Francis Crick (Corriere della Sera, 29.9.2005). Dopo aver affermato che Darwin aveva fornito una “prova schiacciante” dell’evoluzione, Watson prosegue ricordando che egli fallì completamente nel tentativo di spiegare il meccanismo dell’evoluzione mediante la “pangenesi”. Avrebbe dovuto aggiungere che ciò significava semplicemente il fallimento dell’ipotesi darwiniana. Che cosa si sarebbe potuto ricavare dalla semplice constatazione del ripresentarsi della cometa di Halley negli anni 1531, 1607 e 1682, senza conoscere la legge del moto dei corpi celesti? Nulla. Non soltanto sarebbe stato impossibile prevedere le date dei suoi ritorni, ma, nell’assenza totale di qualsiasi teoria scientifica, quella semplice lista di date non avrebbe detto nulla di nulla. La scienza – diceva il grande Henri Poincaré – non è un insieme di fatti, così come un ammasso di pietre non è una casa. Ed è per questo che tanti scienziati considerarono fallito il darwinismo. Nel 1935, il noto zoologo italiano Umberto D’Ancona scriveva al suocero matematico Vito Volterra che “oggi nessuno può obiettivamente dire di essere darwinista: tale espressione sarebbe antiscientifica”; e aggiungeva che l’evoluzione restava l’unica ipotesi di lavoro plausibile ma non più riproponibile sotto la forma darwiniana: “L’ultima evoluzione che abbia avuto una sicura dimostrazione sperimentale è quella delle mutazioni. Ma queste non dimostrano l’evoluzione darwiniana”. Difatti – e lo ricorda Watson al Corriere – per rivivere, l’evoluzionismo ha dovuto coniugarsi con l’analisi dell’ereditarietà di Mendel. Ma la storia non finì felicemente con queste nozze. A distanza di settant’anni, lo iato rilevato da D’Ancona non è colmato. Si potrebbero riempire interi scaffali con le critiche – propriamente scientifiche e nient’affatto teologiche – mosse alla teoria sintetica dell’evoluzione. Ed è sintomatico il fatto che i dissensi più acuti abbiano contrapposto i “teorici” del “neo-darwinismo” agli “sperimentali” per eccellenza in questo campo, i paleontologi. Tutto ciò viene ignorato da Watson che se la cava con una sorta di rilancio a poker, e cioè buttandola in ideologia: ammonisce di non dimenticare mai che la scienza serve soprattutto alla “continua eliminazione del soprannaturale”, a liberare il genere umano dalla superstizione. Una volta bollati i critici come “scienziati influenzati dalla religione” (sinonimo di superstizione), resta poco da dire: le questioni di merito spariscono e resta da decidere se si ha il coraggio di farsi appioppare il marchio d’infamia della superstizione. Ma tutto ciò non basta a tranquillizzare Watson, il quale effettua un doppio rilancio, che fa pensare a una persona che cerchi di farsi coraggio urlando nel buio. I “superstiziosi” sarebbero colpevoli di considerare il neodarwinismo come una “teoria”, mentre essa è una “legge”, un “dato di fatto”, messa in discussione soltanto da chi sceglie di negare l’evidenza. Forse Watson voleva dire “ipotesi” o “modello”, non certo “teoria”. Una teoria scientifica non è roba da poco, e non si vede a cosa dovrebbe aspirare di più il neodarwinismo. Ma Watson dice che il neodarwinismo non è una teoria, è una “legge”, così dimostrando di non sapere cosa sia una teoria, visto che una teoria scientifica concernente dei fenomeni – e che non si riduca a un modello mentale o puramente matematico – è fondata su leggi. E una legge scientifica è tutto salvo che un mero “dato di fatto”, come invece crede Watson, per il quale evidentemente la scienza è un ammasso di pietre. Insomma, una confusione epistemologica da far cascare le braccia e che ripropone la domanda impertinente: dove si rischia di finire viaggiando su queste rotaie? Certo, quando si scende dai vertici del Nobel e dell’ideologia militante di Watson, s’incontrano molto meno trionfalismo e visioni più piattamente manipolative della biologia. sarà difficile ma non impossibile modificarne altre, e che sarà relativamente facile modificarne altre ancora”.
Insomma, tutto può succedere, nulla è certo, niente si può dire, salvo nutrire ottimismo: “Decidere a priori che sarà impossibile superare gli ostacoli tecnici o scientifici è prematuro, per usare un eufemismo”. Questa è una fantascienza, non più fondata della fantascienza di qualità alla Asimov, e assai meno divertente. Allora, se non è la conoscenza, che cosa ci guida in questo percorso a sorpresa? La corrente inarrestabile della tecnologia. Stock ammette che sarebbe meglio “rallentare” la corsa per accrescere prima le nostre conoscenze e quindi “scegliere la via migliore in anticipo”, ma secondo lui tale progresso conoscitivo è un “miraggio” e rallentare non è realistico. Anzi, tanto vale fare di necessità virtù ed enunciare senza ipocrisie un programma di pura e semplice morte della scienza in quanto progetto conoscitivo, subordinandola alle pratiche manipolative: “Negli ultimi cento anni la traiettoria delle scienze biologiche ha subito un cambiamento netto passando dalla descrizione alla comprensione alla manipolazione. Alla fine del diciannovesimo secolo, la descrizione di nuovi caratteri biologici o nuove specie biologiche era ancora un buon progetto di dottorato per uno studente. Non lo era più nel ventesimo secolo, quando questo tipo di studi diventa principalmente un mezzo per capire i meccanismi della biologia. Oggi sta cambiando anche questa realtà e, nella prima metà del ventunesimo secolo, la comprensione della nostra struttura biologica probabilmente non sarà più fine a se stessa quanto un mezzo per manipolare la biologia”. In questo deserto concettuale, l’unica idea propriamente scientifica del libro, e cioè il carattere determinante della struttura genetica dell’uomo, appare in tutta la sua desolante fragilità, sostenuta dal solo puntello dell’ideologia. Lo stesso Stock ammette più
volte che il fattore genetico ha un carattere marginale, come quando sostiene che la durata di vita di un individuo “è dovuta a un fattore genetico soltanto per il 25 per cento circa”. Insomma, “noi siamo il risultato di una complessa interconnessione tra geni e ambiente”. Un bel pasticcio per un fautore del paradigma “tutto è genetico”. E allora cosa fare? Studiare tale interconnessione? Ma per carità! Vediamo piuttosto di togliercela dai piedi, e di trasformarci tutti in macchine genetiche pure: “Se la società riuscisse a eliminare estreme condizioni ambientali, per esempio fornendo nutrizione di base e istruzione a tutti, i geni eserciterebbero un influsso maggiore, non minore, sulla nostra formazione”… Insomma, sotto la sottile scorza di un fragile discorso scientifico emerge un rude apparato ideologico che poi è lo stesso di quello di Watson: un pesante materialismo il cui scopo militante è quello di “liberare” gli uomini dalle superstrutture mentali e ambientali che li fanno deviare dalla loro vera essenza genetica, e offrire loro finalmente “un mondo che non era mai stato così meraviglioso” (come recita l’occhiello dell’articolo di Watson sul Corriere); il quale poi non è altro che il solito meraviglioso “Brave New World” descritto da Huxley. Nel libro di Stock due aspetti rivelano ulteriormente l’impianto puramente ideologico. In primo luogo, si tratta dell’ossessione di dimostrare che il corso degli eventi in cui siamo inseriti è ineluttabile: “La possibilità di riprogrammare gli esseri umani arriverà a prescindere dalla nostra volontà”. E’ un vero e proprio leitmotiv, ripetuto fino allo sfinimento (del lettore). A tal punto, che viene da pensare più a un esorcismo che a una serena convinzione, a un insicuro e compulsivo desiderio di intimidire chi si facesse venire in mente l’idea insana di ostacolare il corso degli eventi. Il secondo aspetto è la preoccupazione con cui Stock cerca di combattere la “concorrenza”, e cioè l’informatica e il cyborg. Egli teme questa concorrenza, che può contare sugli antichi e minacciosi colossi della logica e della matematica. Accade così che egli esageri in modo ridicolo i successi dell’intelligenza artificiale, dimenticando che persino uno dei suoi massimi profeti, Marvin Minsky ha recentemente dichiarato la morte clinica della disciplina, un settore a “encefalogramma piatto” (“I computer non hanno buon senso, è inutile. Possiamo riuscire a far loro compiere soltanto azioni semplici e meccaniche, come prenotare un aereo. Ma nessun elaboratore potrà mai guardarsi intorno in una stanza e descriverla”). E non meno ridicola è la sua enfasi circa la vittoria del computer Deep Blue contro il campione mondiale di scacchi Garry Kasparov. Come se non sapessimo da un secolo – grazie a un teorema matematico – che gli scacchi sono un gioco la cui soluzione è determinata, per cui, quando sarà possibile immagazzinare tutte le varianti in un computer, questi vincerà ineluttabilmente, giocando però un gioco basato su un procedimento di ottimizzazione matematica che non ha niente a che vedere con il gioco degli esseri umani. Quest’ultimo non segue soltanto percorsi di calcolo, ma anche strategie e tattiche aventi una componente prettamente psicologica. Un sintomo della paura esagerata che Stock nutre nei confronti della “concorrenza” cyborg-informatica è il bizzarro (per lui) ricorso all’argomento dei legami dell’uomo con la naturalità: “Le previsioni dell’imminente fusione di umani e macchine non prendono in considerazione il livello del nostro essere biologici di natura e il nostro desiderio di rimanere tali”. Insomma, noi dobbiamo difendere la nostra naturalità quando essa è insidiata dalla concorrenza, ma una volta caduti in toto nelle mani dei biologi, il nostro desiderio di “rimanere tali” deve cedere il passo a una manipolazione meccanicistica di tipo genetico senza limiti. Siamo di fronte allo sgomitare di differenti versioni dello stesso materialismo meccanicistico, dello stesso anti-umanesimo oltranzista, ispirato a una fede in una tecnologia che va avanti da sola, ciecamente, all’immagine malinconica di una scienza degradata ad ancella di una manipolazione di tipo alchimistico – la “tecnoscienza”, per l’appunto.
Pur di difendere questo materialismo ogni argomento è buono: persino ricorrere a sgangherate citazioni di teologi di comodo che ci rassicurano sul fatto che Dio (redivivo quando torna comodo!) avrebbe regalato il mondo all’uomo affinché egli ne faccia quel che più gli garba e affinché corregga i difetti della creazione sbilenca e imperfetta che lui, il buon vecchio barbuto, ha malamente abborracciato. Ed ecco perché questo mondo in cui siamo cascati è troppo complesso per essere capito. E’ meglio non rompersi troppo la testa sopra un simile garbuglio e cercare piuttosto di riprogettarlo in modo semplice e razionale, buttando via l’eccesso di fastidiose interazioni e isolando la genetica nella sua cristallina purezza.
Watson non è estraneo a tali visioni, ché anzi egli ne rappresenta il massimo paladino, fino al punto di proporre una rivalutazione dell’eugenetica – della parola e della sostanza. Ma l’atteggiamento diffuso nei confronti dell’apparato teorico della biologia è più disincantato. Così, Stock si guarda bene dal riporre tanta fiducia nell’esistenza di leggi e di teorie, e anzi ammette – ora tra i denti, ora apertamente – che più si va avanti nello studio del vivente e più le cose si fanno complesse, per cui è meglio lasciar perdere la comprensione e dedicarsi alla manipolazione, senza rompersi troppo la testa. E non nasconde che le debolezze sul piano della comprensione teorica possono portare a un vicolo cieco anche sul piano della manipolazione. Dopo aver dichiarato che “le manipolazioni dirette della linea germinale umana potrebbero dover attendere ancora uno o due decenni”, ammette candidamente che “la nostra biologia potrebbe rivelarsi troppo complessa per essere rielaborata”. Ma non stavamo leggendo un libro che ci spiegava come “riprogrammare gli esseri umani”? E ora ci si dice che forse non se ne farà nulla per troppa complessità? Il fatto è che Stock appartiene a una categoria di scienziati rigorosamente pragmatici e realisti. Lui confessa di non sapere quasi niente, ma non vede perché ciò debba impedire di andare avanti: “La scienza è soltanto agli inizi della decodificazione delle relazioni tra i nostri geni, la nostra fisiologia e il nostro comportamento”, e, piuttosto che incaponirsi su “quello che non sappiamo sui molti geni che non capiamo”, è meglio approfondire la conoscenza su “quei pochi che capiamo”. Insomma, bisogna essere realisti e aggirare gli ostacoli. Per esempio, la genetica della religiosità, della criminalità, dell’intelligenza e della sessualità sono troppo “politicamente connotate e controverse” per “ricevere finanziamenti adeguati”, per cui è meglio arrivarci per la via traversa e meno contestata della cura delle malattie. Stock non garantisce nulla e lo dice senza infingimenti: “La complessità dei sistemi biologici è innegabile, pertanto una ventata di scetticismo nell’esuberanza dei titoli di giornale sulla rivoluzione della genomica non fa male. (…) A questo punto la manipolazione della linea germinale non è fattibile o sicura. E non lo sarà neanche tra una decina d’anni. Ma tra venti o trent’anni la situazione potrebbe cambiare. (…) Entro dieci anni avremo a disposizione molte più informazioni sul modo di manifestarsi delle nostre predisposizioni e vulnerabilità genetiche. Probabilmente scopriremo che sarà impossibile manipolare molte di queste predisposizioni E’ quasi superfluo dire che, in un simile
contesto di idee, tutte le considerazioni sui rapporti fra scienza ed etica sono chiacchiere di comodo oppure esorcismi confusi, come nel caso dei rischi di un risorgere di un’eugenetica di tipo nazista, liquidati con una semplice dichiarazione di buona volontà. Allo stesso modo, non hanno alcun carattere di evidenza scientifica, alcun fondamento di prova, alcuna giustificazione storica, culturale, sociale o di qualsiasi altro tipo, bensì sono frutto di pura, purissima ideologia, le tesi di Stock su due questioni cruciali: come affrontare il problema della morte e dell’invecchiamento, e come affrontare il problema della riproduzione. Anche in questo caso non si tratta di capire ma di cambiare il modo di pensare della gente. Bisogna cessare di considerare la morte e la vecchiaia come fatti naturali, occorre considerarli come il male supremo: “Potremmo cominciare a considerare l’invecchiamento non come una malattia fra le tante, ma come la malattia per eccellenza, che colpisce tutti indistintamente, menoma, uccide, è brutale e, all’improvviso, potenzialmente curabile”. Ricordate come caratterizzava Popper gli esseri umani? “Sono capaci di gustare le gioie della vita ma anche di soffrire e sanno affrontare la morte con piena consapevolezza”. Discorsi da imbecilli, anzi da rimbecilliti. Se Popper avesse osato farli nel “mondo che non è mai stato così meraviglioso” sarebbe finito dritto all’ospizio. Quel che Stock dice sulla procreazione è ancor più stupefacente. Egli ammette che la Fiv è “troppo costosa, sgradevole, inaffidabile e intrusiva perché possa competere con il buon vecchio sesso”. Difatti, che la Fiv serva a curare la sterilità, a Stock non importa nulla: a lui interessa semplicemente far fuori il ruolo riproduttivo del sesso. Come? “Con qualche operazione di marketing mirata da parte dei centri di Fiv, la riproduzione tradizionale potrebbe diventare antiquata, se non del tutto irresponsabile. Un giorno il sesso potrebbe essere considerato un’attività prettamente ricreazionale e il concepimento qualcosa che è meglio fare in laboratorio”. E perché mai, Mr. Stock? Se a lei non passa neppure per l’anticamera del cervello che per tanti di noi un figlio è l’espressione di un atto di amore e il sesso non è un’attività meramente “ricreazionale”, il problema è suo: trascini sua moglie in laboratorio e nell’attesa del concepimento si ricrei sessualmente come più le aggrada, oppure sottoponga la faccenda allo psicoanalista. Non le sembra eccessivo volerci mettere al bando come “irresponsabili” con qualche operazione di marketing “mirata”?
Verrebbe la voglia di riderci su, se non fosse che queste ineffabili vedute non sono quelle di un qualsiasi signore di passaggio, ma sono quelle di uno “scienziato”, sono la voce della “ragione”; e se non fosse che una nutrita schiera di neo-crociati è pronta a levare la spada per difendere l’onore della scienza offesa contro chi osi trattarle per quel che valgono.
Il celebre filosofo e matematico illuminista marchese di Condorcet ebbe a dire che ogni società che non è governata dagli scienziati cade in mano ai ciarlatani. E’ un’antica utopia che risale a Platone. Alexandre Koyré la criticò osservando che si può avanzare la pretesa che il sapere giustifichi il possesso e l’esercizio del potere a una sola condizione: e cioè che tale sapere si identifichi con l’onniscienza. Poiché l’onniscienza non è cosa umana, un uomo che si ponga al disopra degli altri in nome della scienza è soltanto un tiranno. Ma forse queste considerazioni sono troppo elevate nelle nostre circostanze. Perché qui siamo agli antipodi dell’onniscienza; e a una società governata da una simile “scienza” è da preferire persino una società governata da ciarlatani.