Gloria a Dio negli altissimi
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Presento qui qualche riflessione sul testo greco di un versetto legato al racconto del Natale, Lc. 2, 14. La lettura del testo greco presenta elementi che possono sfuggire alle traduzioni. Le ultime versioni della CEI rendono così in italiano l’originale greco:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
La versione latina più diffusa, la cosiddetta Vulgata (curata con perizia e attenzione da un dottissimo Padre della Chiesa, San Gerolamo) ha: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax in hominibus bonae voluntatis. La versione latina ha favorito il diffondersi in italiano della traduzione “agli uomini di buona volontà”, che è il testo accolto anche nella traduzione della liturgia della Messa (“Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”). Come si capisce bene, le due differenti versioni della stessa parola greca (per la precisione, eudokía) corrispondono a due diverse prospettive: una traduzione fa appello all’etica umana mentre l’altra mette in rilievo l’azione della Grazia divina (“gli uomini su cui posa il suo favore” ha una traduzione protestante, la cosiddetta Nuova Diodati): si tratta di scegliere tra l’iniziativa dell’uomo e l’iniziativa di Dio. La parola greca (una parola rara: come avviene anche nel racconto dell’Annunciazione, Luca cerca di elevare il tono del suo racconto con l’uso di termini che, proprio per la loro rarità, risultano più pregnanti e densi di significato) si presta a entrambe le interpretazioni, ma la traduzione attualmente in uso, con l’attribuzione del “buon volere, buona disposizione” alla volontà divina sembra preferibile per varie ragioni.
Merita attenzione innanzitutto la parola iniziale: a Gloria corrisponde nel testo Dóxa, parola che nel greco biblico ha il significato di ‘buona fama, rinomanza’ da cui il senso ulteriore di ‘gloria, maestà’: in senso concreto dóxa è lo ‘splendore della luce’ (in Atti 22, 11 gli apostoli ‘non ci vedevano per la brillantezza [dóxa] della luce’). Alla glorificazione del coro angelico corrisponde la glorificazione degli uomini: i pastori tornano alle loro case (2, 20) ‘glorificando Dio’: la parola usata è la stessa. Alla gloria di Dio, collocata nella zona più elevata e inaccessibile del cielo (questo è il significato, nel linguaggio semitico, dell’espressione), corrisponde sulla terra la pace (vale a dire, sempre secondo il linguaggio biblico, il benessere spirituale e materiale, la piena realizzazione dei desideri umani). Nelle due parti del versetto la collocazione dei tre elementi fondamentali (Dio ~ gli uomini; gli altissimi ~ la terra; Gloria ~ grazia divina) presenta una evidente e voluta asimmetria: si tratta di una scelta precisa dell’autore, che anche nella collocazione delle parole cerca di creare dei rapporti e di mettere in rilievo elementi e corrispondenze con una tecnica ben collaudata. Dio e gli uomini sono nella parte centrale, mentre i due termini chiave (la gloria e la grazia divina) sono ai due estremi, cioè nelle parti che gli antichi considerano più rilevate della frase: i due termini sono formati sulla stessa radice: poiché eudokía è una formazione che contiene la stessa radice di dóxa col prefisso eu- che vale ‘bene’, la dóxa è il riconoscimento che le creature devono alla gloria divina, mentre eudokía è la benevolenza con cui il Signore guarda e veglia le creature: l’attenzione del lettore viene così veicolata sui due elementi essenziali, e sullo sfondo di questa duplicità si colloca l’intero ambito della creazione e della felicità che consegue all’evento straordinario della nascita di Gesù. La gloria di Dio dà inizio a un’epoca nuova sulla terra, benessere e pace stanno per propagarsi in mezzo agli uomini che Dio ama: l’inizio della seconda parte del versetto con le parole ‘sulla terra’ introduce questo nuovo concetto: dopo avere descritto la gloria di Dio, l’autore introduce un nuovo scenario: la gloria di Dio ora illumina anche la terra e le dona felicità e benessere con la sua Grazia. Da una parte l’eternità e l’immutabilità, dall’altra l’inizio di una nuova epoca di felicità.
Incidentalmente, ricordo che di questo versetto circolava fin dall’antichità anche un’altra lettura, con la variante eudokía (nominativo) in luogo di eudokías (genitivo). Questa variante (conosciuta e adottata da molti manoscritti antichi, da versioni, da autorevoli scrittori ecclesiastici), porta a una diversa scansione del versetto: ‘«Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e sulla terra pace, agli uomini grazia divina». La preferenza accordata alla versione oggi più nota è dovuta soprattutto al carattere linguisticamente più aspro di questa diversa lettura: la seconda parte del versetto si presenta spezzato e privo di congiunzioni in maniera un po’ dura.
Le parole del coro celeste descrivono l’esultanza di cielo e terra di fronte all’evento del Natale. Ma vi è un altro passaggio del Vangelo di Luca in cui ricorrono parole molto simili, e questa volta non siamo più nell’ambientazione natalizia ma nella fase finale del racconto evangelico, quando i giorni della Passione e della Crocifissione sono ormai alle porte. All’ingresso di Gesù a Gerusalemme la folla acclama con queste parole: «Benedetto colui che viene, il re in nome del Signore: in cielo pace, e gloria (dóxa) negli altissimi». Le ultime parole contengono una citazione praticamente letterale: è interessante che gli altri due sinottici (Matt. 21, 9 e Marc. 11, 9-10) abbiano osanna in luogo di dóxa. Luca ha volutamente creato un richiamo testuale al coro angelico del Natale, ma la struttura è rovesciata: la Gloria di Dio è collocata alla fine dell’acclamazione, mentre la pace è sempre nella parte centrale. All’inizio abbiamo Benedetto: il parallelismo (con schema rovesciato) tra i due passaggi induce a mettere in relazione benedetto con grazia divina (eudokía), confermando così che per questa parola deve essere ritenuta preferibile l’interpretazione che richiama il dono della Grazia divina e della benedizione. Certo sembra più agevole, nel contesto culturale di oggi, accettare il richiamo a una sollecitazione etica piuttosto che alla libera accettazione da parte dell’uomo di un dono di Dio, e questo spiega la diffusione della formula “uomini di buona volontà”: per l’interpretazione dei testi non è detto che la soluzione apparentemente più ovvia e più facile sia necessariamente quella più corretta. La traduzione “di buona volontà” del resto è in sé una resa corretta del testo evangelico: basta tenere presente che qui si allude alla “buona volontà” di Dio e non degli uomini. Richiamo quanto scrive a questo proposito L. Giussani nel libro Perché la Chiesa (p. 106):
«Il Signore Dio, nel suo disegno che riguarda tutto il mondo, teso a tutto il mondo poiché Egli è il Signore di tutti, si propone a tutti attraverso la scelta di una realtà umana particolare. [...] Non esiste niente che affermi e insegni all’uomo l’assolutezza di Dio come il fatto che Egli sviluppi nel mondo la sua opera attraverso coloro che Egli sceglie, attraverso una elezione: Dio non è legato a nulla e proprio nel fenomeno di questa preferenza elettiva si manifesta […] Questo metodo [di Dio] è motivo di scandalo, e lo è tanto più per noi oggi, pieni di difficoltà come siamo nel renderci conto del linguaggio cristiano autentico. Il concetto di elezione, di scelta di Dio, è il caso in cui più clamorosamente la lontananza da una comprensione si documenta in noi, perché non c’è nulla di più contraddittorio con il razionalismo in cui siamo formati e con l’egualitarismo o il democraticismo che ne sono conseguenza».