Mons. Negri: Non siamo la «Chiesa del silenzio»

Abbiamo realizzato questa intervista a Mons. Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eccellenza, oramai il rodaggio nella nuova Diocesi si è compiuto. Quali i punti importanti del suo percorso?
Questi mesi per me hanno rappresentato un grosso salto di novità: l’ingresso a Ferrara, l’inizio di un cammino che si preannuncia molto intenso e significativo, per la realtà ecclesiale e non solo, e denso di moltissime reazioni, probabilmente dovute (come è emerso sia per quanto accaduto per la Piazza del Duomo sia per la vicenda penosissima di un prete, accaduta più di trent’anni fa, e lanciata contro di me e contro la Chiesa di Ferrara come se fosse un problema di oggi…) al fatto che un contesto tradizionalmente anticattolico non accetta quello che io ho considerato come irrinunciabile: una presenza cristiana caratterizzata da un’esperienza di popolo, un popolo che contiene una visione obiettiva della vita, quindi una cultura, e un ethos nuovo, cioè la carità, insieme a uno slancio missionario che spinge il popolo cristiano ad uscire continuamente da sé per incontrare l’uomo che vive in questa società. E queste sono state anche le preoccupazioni vissute nei sette anni di episcopato nella diocesi di San Marino-Montefeltro.
La situazione sociale sembra sempre più preoccupante…
Viviamo dentro una tragica situazione culturale, sociale, economica e politica del nostro paese, ridotto allo stremo dal punto di vista della stessa sopravvivenza fisica, in una situazione difficile da comprendere. C’è una lentezza, una irresponsabilità, una inefficienza delle strutture governative ed istituzionali, che non si rendono conto della necessità di iniziative tempestive, precise, concrete. Non basta semplicemente una serie di messaggi (che vengono poi puntualmente contraddetti da programmi che il popolo comprende) che non hanno poi seguito proporzionato alle sfide che sono in atto. A questo disagio profondo dovuto alla inefficienza istituzionale, segnata da tutta la gravità degli scandali economici, di arricchimento, di veri e propri furti delle amministrazioni pubbliche, si aggiunge una inefficienza segnata da contraddizioni in una totale soggezione ad una magistratura come unico potere che decide il destino delle istituzioni, facendo e disfacendo, agitando come clava l’iscrizione sull’albo degli indagati in un rutilare di vicende giudiziarie che nascono, muoiono, si gonfiano e si sgonfiano con criteri di comportamento diversi a seconda dei presunti o reali indiziati, o rinviati a giudizio; insomma, un potere assoluto, autoreferenziale, che dà uno spettacolo non diverso da quello che danno le altre istituzioni, con la differenza che, non essendo sottomesso niente a nessuno, esercita ormai un’egemonia, un dominio. La nostra è una repubblica dominata dalla magistratura e che sta lentamente mutando il proprio DNA passando da una Repubblica a guida parlamentare e governativa ad una repubblica sostanzialmente di carattere presidenziale.
In questa situazione in cui credo che queste vicende, quasi per contrappunto, creino questi miti-mostri (Movimento5stelle con Grillo, i “forconi”, i NO-TAV, eccetera), è assoluta mancanza di realismo e di buon senso pensare che si esca da una situazione così grave enfatizzando o solo utilizzando forme di reazione che, seppure in certi momenti, possono essere comprensibili (si comprendono di più i forconi e meno quel coacervo di confusione morale, intellettuale e a volte mentale del Movimento5stelle). Se le istituzioni non danno affidamento, pensare che si possa avere affidamento per questi isterismi mi sembra altrettanto irrealistico. In tanti anni di vita, neanche nei tempi peggiori del terrorismo, mi pare che il Paese sia stato così in ginocchio.
In questo quadro così a tinte fosche, la Chiesa sembra non avere più molto da dire, sembra quasi una «Chiesa del silenzio»
Mi devo chiedere come vescovo italiano che cosa siamo noi come Chiesa del paese. Credo che siamo ancora una grande presenza che, però, sta accettando una sorta di generale silenzio.
In tante diocesi (penso alla mia, a Ferrara, e alla «nostra» di san Marino-Montefeltro) si interviene, si giudica: questa è una diocesi che come tante altre ha un grande compito di carità cui corrisponde. Io che ho fatto tanti studi di storia civile e di storia della Chiesa posso dire che, quando nacque la dittatura in Italia, gli storici non potevano neanche lontanamente ammettere o confermare il giudizio che la Chiesa fosse stata meno che mai dalla parte della dittatura, perché gli interventi furono inequivocabili e gli atteggiamenti non meno decisi.
Come vescovi, come Chiesa siamo dentro una tragedia, una realtà che potrebbe avere il volto di una tragedia nazionale e questo reiterato silenzio ci renderà, nel giudizio degli storici futuri, in qualche modo conniventi. Questa è una grave eventualità: una Chiesa che vuole essere presente nel paese, e che aveva ricevuto da Benedetto XVI nell’indimenticabile convegno di Verona il compito di custodire e sviluppare la cultura del nostro popolo, che contiene anche una energia di civilizzazione, credo che debba chiedersi se è all’altezza del compito che la base popolare e la suprema autorità della Chiesa ci consegnano.

Quanto ha vissuto come Vescovo di San Marino-Montefeltro (ed era la sua prima esperienza) che ricordo le ha lasciato?
Vorrei riflettere su questi anni bellissimi, intensissimi, che la Provvidenza mi ha fatto vivere come vescovo di San Marino Montefeltro: ho tentato un bilancio del messaggio inviato a tutta la diocesi e che considero un po’ come la mia eredità, come l’ultimo gesto di affezione a questo popolo cristiano che ho amato con tutte le mie forze. Alcuni risultati sono evidenti, sugli altri lo sviluppo degli avvenimenti li renderà più chiari.
Limiti, nella mia esperienza di vescovo, ne ho avuti certamente, ma una cosa mi risulta chiara, anche leggendo qualche interessata speculazione di stampa (soprattutto sammarinese) sulla nomina del mio successore. Io ho avuto una sola preoccupazione: quella di incrementare il popolo cristiano in tutte le sue forme e articolazioni, secondo l’intarsio di vita parrocchiale, di gruppi, movimenti, associazioni, gruppi di preghiera. Non ho avuto nessun pregiudizio, ma solo l’impegno ad intensificare la realtà ecclesiale e il servizio alla Chiesa. In particolare, siccome sono certo di essere arrivato lì con il grosso pregiudizio di avere, come dice il cardinale Scola, un secondo peccato originale (quello di essere “ciellino”), credo che solo una invincibile faziosità possa attribuirmi di avere dato privilegio a movimenti come CL invece che alla Azione cattolica. Se si dovranno fare i conti di questi sette anni, credo che io sia stato molto di più il vescovo dell’Azione cattolica che il vescovo degli altri movimenti, anche perché ho avuto la straordinaria occasione di incontrare Federico Nanni, presidente diocesano di Azione cattolica, una personalità di grande intelligenza, amore ecclesiale e capacità di condivisione delle prospettive che io davo e di attualizzazione di queste prospettive secondo una specifica responsabilità dell’Azione cattolica. L’Azione cattolica ha creato, anche grazie alla mia presenza, un movimento di popolo fortemente caratterizzato sul piano dell’intelligenza e dell’impegno caritativo. Ho in mente alcune iniziative di storia della Chiesa italiana e della Azione cattolica che sono state per me non solo positive, ma mi hanno dato elementi di conoscenza della realtà molto profondi. Anche solo dal punto di vista numerico, dall’inizio del mio episcopato fino alla fine, l’Azione cattolica è stata anche in incremento quantitativo, oltre che qualitativo.
Sono stato anche particolarmente attento alla realtà nuova che va sotto il nome di “gruppi di preghiera”, ai momenti più importanti della vita dei quali ho partecipato. Durante la visita del Santo padre Benedetto XVI, io ho potuto dire: “Santità, dobbiamo osservare e curare con molta attenzione questi gruppi di preghiera, perché sono punti di energia, di rinnovamento della Chiesa, come 30-40 anni fa, al loro sorgere, sono stati molti dei movimenti ecclesiali che poi, finalmente, la Chiesa ha saputo riconoscere e accogliere operativamente nel suo seno”.