Quando non basta il «minuto di silenzio»
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«Homo sum, humani nihil a me alienum puto».
Ho chiesto di scrivere questa frase di Terenzio, sulla prima pagina del quaderno di italiano di quest’anno. L’ho deciso quando Lampedusa ha fatto irruzione nelle mie classi. La tragedia del mare, i corpi bruciati, gli annegati, i dispersi, i sopravvissuti. E poi i racconti dei soccorritori, i commenti dei politici, le parole di Papa Francesco…
Non è bastato il minuto di silenzio chiesto dalla ministra Carrozza. Non è bastata nemmeno la mattinata. Venerdì ho incontrato solo due delle mie classi, le altre due stamattina. Da allora ad ora si sono aggiunti altri cadaveri, altre storie, altre immagini, altro dolore.
Avevamo previsto una lezione su Dante, su Galilei in quarta. La lettura del secondo capitolo de I Promessi Sposi in seconda. Ma la realtà è più grande dei nostri progetti e «Homo sum, humani nihil a me alienum puto». Sono uomo e ritengo che niente di ciò che è umano mi sia estraneo: è questa la cosa più importante che dobbiamo imparare.
Ci riguarda eccome, quel che è accaduto lì. E se così non è per distrazione, o perché i genitori sono di fretta e di quel che capita lontano non c’è tempo di parlare; se gli immigrati ci hanno stufato perché in Italia non c’è lavoro neanche per noi, figurarsi; se gli sbarchi sono problema per gli adulti, per la politica, per la UE, per Lampedusa che è a sud ma noi siamo a nord; se siamo stufi di queste notizie: delle tragedie, degli attentati, dei morti di tutti i telegiornali mattina mezzogiorno sera… Proprio per tutti questi se è necessaria, no, indispensabile la scuola.
(Sabato era la “Giornata mondiale degli insegnanti”. E a cosa serve una giornata tutta per noi, se non perché facciamo memoria di chi siamo e della responsabilità educativa che ci è stata affidata? Non ci fosse bisogno, in classe, di volti e di una presenza adulta, perché non sostituirci con le Lim?)
Le aule hanno finestre per mettere in comunicazione il dentro e il fuori, la nostra vita e la vita degli altri: quella sui libri e quella che scorre nella classe e a Portogruaro, nel Veneto, in Italia, nel mondo. E i miei ragazzi lo sanno, è quasi un patto tra noi. Ogni giorno cerchiamo di portare a casa da scuola almeno una cosa che ci ha fatto crescere e capire qualcosa di più di noi e della vita. Solo così ha senso la fatica, solo così ha senso il nostro camminare insieme. Solo così ha senso la scuola.
E allora, su Lampedusa ciascuno ha detto la sua. Qualcuno è stato zitto, ha preferito ascoltare. Ma quando si parla di vita e di morte, di speranze, in classe non vola una mosca e il silenzio dell’ascolto vale mille volte di più del minuto di silenzio in ossequio ad una circolare ministeriale.
Tommaso ci ha detto che, lui, da questa vicenda una cosa l’ha imparata: si può morire da un momento all’altro. Lui, sedici anni, l’ha capito che una madre incinta non si mette in viaggio in un barcone se sa di andare incontro alla morte. Non chi è salpato con un figlio piccolo. Fai progetti per il domani, per il tuo futuro e crepi. E allora Tommaso ha detto ai compagni che noi, qui, innanzitutto, possiamo – no: dobbiamo – vivere bene la vita, il presente. E dare sostanza ai rapporti con le persone più care. Non si posticipa la vita: la vita si vive. Adesso.
Se anche solo Tommaso in tutta la sua classe, o in tutta la scuola, o in tutta Italia, dalla tragedia di Lampedusa ha capito questo; se un adolescente vive più consapevolmente la sua vita, ebbene: quei morti, a Lampedusa, non sono morti invano.
E che silenzio si è fatto quando ha alzato la mano Sabina, e ha raccontato del suo viaggio in barcone da Durazzo a Bari. Aveva una settimana di vita e già tanti problemi, quel 14 marzo 1997.
«Non importa che sia un gesto grande – ci ha detto alla fine -, ma ognuno di noi deve fare nel suo piccolo qualcosa per scardinare dal cuore l'indifferenza». I ragazzi son veri: più degli adulti. L’ha detto e l’ha fatto, quel gesto. Tempo due ore e ha scritto in un articolo per il LogBelli, il giornale online dell’Istituto, quegli stessi pensieri comunicati ai compagni di classe. Quell’articolo sta facendo il giro della scuola, ed è in rete. Interroga e com-muove professori e studenti, perché l’indifferenza non si scardina con gli armiamoci e partite: si scardina partendo da sé e dal proprio cuore. E mettendosi in gioco, mettendo la faccia. E’ per questo che, quando può, insieme ad altri studenti Sabina viene a darci una mano a “Compiti-amici”, il gesto di caritativa del martedì e del giovedì pomeriggio, quando ci troviamo per dare una mano a svolgere i compiti ai ragazzini delle medie in difficoltà. Insieme abbiamo capito che la condivisione non sono proclami ma gesti. E che la carità è contagiosa.