Antonio Socci, si può vivere così!
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(Don Luigi Giussani)

Ho provato a mettermi nel panni di Caterina: a leggere la “Lettera a mia figlia” di Antonio Socci come fosse indirizzata a me.
Ho scorso voracemente le frasi, i capitoli. Ho voltato le pagine curiosa, a cercare altra ombra, ancora altra acqua, altro ristoro.
Leggevo e mi sono ritrovata non in un libro: in un luogo. Un’oasi nel deserto di questo mondo che non sa più vivere il dolore, non sa proporre padri né adulti capaci di donare speranza, di fissare lo sguardo sulle cose belle che danno sollievo al cuore e dirci è possibile.
Qui li ho trovati, gli adulti che cerco.
Innanzitutto un «padre nella tempesta», che non per questo ha smesso di navigare. Ha imparato a guardare in faccia il dolore e ad abbracciare la croce. Accetta la sua insecuritas, il senso di precarietà che si avverte quando la vita ci mette alla prova, perché ha capito che questa e non altra è la strada per la conversione e per il compimento di sé, che è felicità.
Un padre che pagina dopo pagina impara e insegna la pazienza, l’attesa, la fiducia, la mendicanza. E non demorde: non smette di bussare alla porta di Chi tutto può, certo che «Dio vuol essere vinto dall’uomo che prega, in modo da far vincere così la Sua misericordia e la Sua bontà».
Com’è diverso questo padre umile e tenace, da tanti padri di oggi, supponenti ma disarmati di fronte alla fatica, alla sofferenza, alle burrasche della vita! Come appare menzognera, leggendo queste pagine, la pretesa postmoderna di figli ad uso e consumo dei genitori: scelti a catalogo, prodotti su ordinazione, rifiutati quando/se non corrispondono ai desideri e ai progetti degli adulti!
No, non è affatto vero che i figli sono come li vorremmo, che la vita va come vogliamo: l’arresto cardiaco è capitato a Caterina improvviso e inaspettato.
Vero è, invece, che il dolore ci spoglia di ogni pretesa, ci rende umili. Mendicanti di quella forza che non abbiamo ma che – sola – permette al nostro «picciol legno» di non naufragare tra i flutti.
E allora questo libro è anche il racconto dei compagni di viaggio che aiutano a sentire la fatica meno dura. Uomini e donne, amici ma anche sconosciuti, attraverso cui, quando sembra di non farcela più, inaspettatamente si sperimenta, concretissima, la «carezza del Nazareno». Ma compagni di viaggio sono anche i santi di ieri e i santi di oggi, che senza clamore indicano la via. Come ricorda Socci, «c’è un giardino nel mondo dove fioriscono queste meraviglie. Dove accadono storie stupende, inimmaginabili altrove. E’ la Chiesa di Dio. Nessuno dei potenti e dei sapienti lo conosce. Per loro e per i loro giornali la Chiesa è tutt’altro. I giornali strapazzano il Vaticano, Benedetto XVI e la Chiesa».
L’ho detto. Nella “Lettera a mia figlia” queste storie ci sono. Questi adulti, segno di speranza, ci sono. E così pare davvero di essere in un’oasi. Ristoro, finalmente. Acqua limpida. E fiori: questi fiori che ci ricordano che la strada buona per tutti è che «il quotidiano diventi eroico e l’eroico quotidiano».
E allora sono contenta di aver provato a mettermi nei panni di Caterina. Di aver finto che questa lettera fosse indirizzata a me.
Ho gustato nuovamente la dolcezza di essere figlia. Ho rammentato che niente di ciò che accade è un male. Ho imparato a non disperare, perché qualunque cosa ci capiti «la Felicità non si è scordata di noi. E’ sulla strada, sta tornando, ci ha già fatto arrivare i suoi messaggeri…»
Ho capito che si può vivere così. E’ il “centuplo” che ci è stato promesso.