L'amore più grande. Chiara
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(Mario Luzi, Monologo)

Come con le scatole cinesi. Più scoperchi, più ti sorprendi.
La storia di Chiara Corbella è così.
E allora parto dalla fine, che è un nuovo inizio. Parto dal suo funerale.
Oltre un migliaio di persone, sabato 16 giugno, nella chiesa di Santa Francesca Romana, dove si è riso e si è pianto; dove Enrico, il suo sposo, ha suonato e cantato le canzoni composte per lei; dove la parola più ripetuta è stata “grazie”, che è il plurale di “grazia”. E poi quelle piantine, regalate su desiderio di Chiara alle famiglie che erano lì, perché «nulla ci appartiene veramente, ma tutto è dono da custodire».
Potrebbe bastare questo, ma apro un’altra scatola. Decido di vedere tutto il video su Youtube. Guardo, ascolto, e comincio a capire.
Capisco quanto è stata controcorrente la vita di questa giovane sposa. Quanto sono vere le parole di padre Vito, il giovane francescano che ha assistito spiritualmente Chiara e la sua famiglia nell’ultimo periodo, trasferendosi anche nella loro casa. «Chiara non è morta per Francesco – ha detto durante l’omelia – Chiara ha dato la vita a Francesco perché per lei è bellissimo vivere spendendo la vita per amore e gli ha dato la vita perché lui potesse fare altrettanto; perché potesse vivere così: spendere la sua vita per altri».
Potrebbe bastare anche questo, per oggi: ricordarmi che i cristiani muoiono sempre per la vita. E invece no, non mi basta, vado avanti. Perché da questa giovane donna sto imparando che c’è modo e modo di vivere, modo e modo di morire.
«Chiara ed Enrico sono sale – ha ricordato ancora frate Vito –; hanno dato sapore alla terra. Se no cos’è la nostra vita? Giusto il tempo di dire “polvere sei e polvere ritornerai”. Hanno reso questo tempo qualcosa di grande, salato da una Sapienza diversa». E poi: «Chiara non è morta serena, è morta felice!»
Sono parole nuove che rimbalzano in rete e mettono in luce la pochezza della mentalità odierna che più in là dell’egoismo non sa andare, né spingersi oltre il soddisfacimento immediato del desiderio (di vita o di morte fa lo stesso). «Dove sta scritto – ha detto dall’ambone padre Vito – che la morte fa solo schifo; che avere un figlio handicappato è una tragedia!? Come dice Enrico: “Se mia moglie sta andando verso Chi la ama più di me, perché dovrei essere scontento?”».
Cos’è amare, se non questo? Volere il bene dell’altro, se non questo?
Chiara, nella bara, indossava il suo abito da sposa, perché, «con-iugi, Enrico e Chiara hanno portato, con Gesù Cristo, lo stesso giogo. Sono entrati nella Sua stessa missione: portare la bellezza e la vita nel mondo. Riscattare tutti i bambini non nati. Far capire a tutto il mondo che i bambini che sono stati abortiti sono bambini bellissimi, capaci di generare vita e amore. Anche se non hanno il cervello, anche se non hanno gli arti».
Guardo e ascolto. Le parole di padre Vito, i rumori di sottofondo del video amatoriale, le voci dei bimbi in chiesa, i vagiti… C’è vita, in quella chiesa. E canto, musica, festa.
Allora capisco perché, durante il funerale, il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, ha detto che Chiara è «patrimonio della Chiesa e del mondo». Eccolo il tesoro custodito nella scatola più piccola che ho trovato sin qui: la sua storia non è solo sua, o della sua famiglia, o dei suoi amici. E’ una testimonianza ed è una ricchezza per tutti.
Tace ora, Chiara, ma riesce lo stesso a dirci tante cose, e a proporci un cammino possibile.
Sì, perché a questa fede salda come una roccia è arrivata pian piano – ha precisato frate Vito –, con un Alleato potentissimo e «seguendo la regola appresa ad Assisi, la regola delle tre P: piccoli passi possibili. Un modo per affrontare la paura del passato e del futuro di fronte ai grandi eventi, e che insegna a cominciare dalle piccole cose. Noi non possiamo trasformare l’acqua in vino, ma iniziare a riempire le giare. Chiara credeva in questo e ciò l’ha aiutata a vivere una buona vita e quindi una buona morte, passo dopo passo».
Un’altra gemma preziosa – certamente non l’ultima – nelle scatole che, una dentro l’altra, oggi mi hanno avvicinata a lei che non è più qui, ma è presentissima.
“Eutanasia”, buona morte, non è quella di cui parlano i medici e i politici, o i soci dell’associazione Luca Coscioni, o quelli che prenotano il posto alla casa blu alla periferia di Pfafficon, venti chilometri da Zurigo, perché gli han detto o si son detti che la loro vita non è degna. «Vivere una buona morte – ha concluso padre Vito, ricordando Chiara – significa vivere una buona vita. Morire da figli di Dio, perché così non si muore mai».
In una delle immagini in rete, accanto a Chiara che tiene in braccio Francesco, il terzogenito, campeggia la scritta «Siamo nati e non moriremo mai più». In questi mesi ho “incontrato” Chiara e da lei ho capito. Non sono parole. E’ una certezza.