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Antonio Simone: Io, nel pestaggio in carcere con cinghie e punteruoli

Fonte:
CulturaCattolica.it
«A sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato e dal mio cuore s’innalza sempre una voce che dice: “La vita è una cosa splendida e grande. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto d’amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere”».
(Etty Hillesum, Diario)

E’ arrivata da un amico una riflessione che volentieri pubblichiamo. I fatti di cronaca si accavallano (l’attentato davanti alla scuola di Brindisi, il terremoto in Emilia…) ed è sempre più difficile “stare dietro” alla realtà. Così difficile che, se non è possibile “starle dietro”, l’unica alternativa possibile è imparare a starci “dentro”, e cioè a viverla.


Ho letto questo intervento di Antonio Simone, in galera per le note vicende che hanno anche portato all'intervento di Carrón su Repubblica. E' vero, ipocritamente si dice: "non voglio entrare dentro la questione giudiziaria sarà la Magistratura a...." ma il punto non è questo, il punto è se questo che accade riguarda me e se accetto l'inerzia come metodo di approccio alla realtà.

L'occhio, poi, mi è andato sulla data cui il racconto fa riferimento, il 13 Maggio, il giorno della nostra festa, quello in cui tutti siamo stati bene, ci siamo divertiti, abbiamo fatto esperienza di com'è bello che i fratelli stiano insieme.
Mi è venuto un rabbuiamento dell'animo per l'incoscienza, a volte colpevole, con cui sto davanti alle cose. Se c'è un luogo nel quale la mia storia è la storia degli altri, in cui ha valore eterno tutto, in cui è salvato tutto, questo luogo è proprio la Chiesa, perennemente in lotta contro il fondamento del peccato che è la dimenticanza. E' perché dimentico di avere un Padre che mi ostino a non essere figlio.

Se avessi sempre coscienza del dolore del mondo, avrei anche più coscienza del mio dolore, sarei consapevole di chi sono e questo non potrebbe che affermare il bisogno di salvezza che ho, che ha anche quel marocchino sfigurato (il Cristo flagellato) e con lui Antonio Simone (il centurione) che lo guarda impietrito.


Pubblichiamo la nuova lettera inviata a tempi.it da Antonio Simone, detenuto nel carcere di San Vittore a Milano.
Ore 13, con Ikea (il mio compagno di cella “mobiliere carcerario”) vado a farmi l’ora d’aria.
Dopo l’ultimo pestaggio e l’autoevirazione (il riferimento è a un episodio raccontato da Simone in una precedente lettera che non ci è pervenuta, ndr) c’è tensione. Il cortile di oggi è quello grande (400-500 metri quadrati), vengono giù in tanti. È pieno. Si creano gruppi divisi per nazionalità, noi camminiamo al centro. Mancano dieci minuti alle 14 e senza che si capisca il perché un nero e un bianco (georgiano, pare) cominciano a scazzottarsi.
Gli amici dell’uno e dell’altro intervengono, inizia la lotta.
Dopo tre minuti i pacieri la vincono, arrivano le guardie, portano via il nero menato e un bianco. Si ricomincia a camminare, ma si vede che si sta preparando la rivincita dell’altro giorno.
Si chiamano da un parte i tunisini e i marocchini e dall’altra gli albanesi. Un minuto e scoppia l’inferno.
Tutti scappano, non si sa dove. L’evirato tunisino è al centro del pestaggio, cade. Escono punteruoli, cinghie con sassi, lui è una maschera di sangue, così come grondano di sangue le mani di chi ha strumenti di offesa e attacco. Comincia la caccia ai tunisini e ai marocchini. La folla ondeggia, cerca di sfuggire, corre tra infuriati armati alla caccia di chi colpire.
Mi ritrovo tra i neri, Ikea mi chiama e ci mettiamo contro il muro. Gente che cade, che prende di tutto. L’evirato non è più una maschera di sangue, è massacrato. Arrivano gli agenti, qualcosa si ferma. Siamo vicini alla porta, ci buttano fuori.
Non ho avuto paura, ma non mi sono mosso a difesa di nessuno, mi avrebbero pestato o sfregiato. Sono stato vigliacco; molte altre volte, fuori, nella vita normale, ho cercato di dividere o difendere. Questa è la follia di domenica 13 maggio, dopo un mese di carcere, festa della mamma, a Milano, carcere di San Vittore.
Rientro in cella, leggo la preghiera del Gius e la grazia che imploro è che sopra la follia sia data una speranza a ciascuno; cioè che ciascuno, guardando un bene avuto, possa guardare con compassione la propria e altrui follia e chiedere di ricominciare.
Fatelo anche voi, per piacere.

Antonio Simone


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