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“Ciò che non si dice non esiste”

Fonte:
CulturaCattolica.it

Per una lingua non sessista
Questo l’obiettivo del convegno, promosso a Roma dall’associazione Archivia, impegnata, tra gli altri progetti, alla diffusione di un “italiano meno maschilista”.
“Le parole sono importanti – afferma, in un appello, un nutrito gruppo di donne – da qui inizia la battaglia per un reale superamento delle disuguaglianze”.
E così, ecco alcune proposte: di fronte ad una maggioranza di sostantivi femminili, occhio all’uso del participio. Anna, Lucia, Stefano si sono svegliate, non svegliati, come ci ha sempre insegnato la grammatica. Stesso discorso per gli aggettivi: Giulia, Chiara, Paolo sono belle e intelligenti, e via di seguito con le concordanze. Questione di maggioranza, dunque. E questione di galateo, perché, più che il Sessantotto, nella battaglia per una lingua non sessista poté… l’antico proverbio veneto, che così recita: “In casa de i galantomeni, prima le femene e po i omeni”.

Compito primario della scuola: rispettare le differenze di genere
Il Coordinamento della Commissione Pari Opportunità ha dunque rivolto un caloroso appello alla ministra Fornero e al ministro Profumo perché si impegnino a diffondere un linguaggio rispettoso delle differenze di genere. Che sia una priorità. “L’urgenza della crisi economica – afferma Gabriella Nistico, responsabile di Archivia – non dovrebbe far passare in secondo piano problemi come questo. Bisognerebbe ricominciare a parlare di parità, abbattendo gli stereotipi linguistici che hanno reso invisibili le donne”. Pazienza la crisi economica, pazienza il tasso di analfabetismo di andata e anche di ritorno, pazienza gli insuccessi e gli abbandoni scolastici, pazienza se in Europa e nel mondo il livello d’istruzione italiano è penoso, pazienza se non c’è più tempo per insegnare, perché un giorno sì e un giorno no gli studenti sono coinvolti in “progetti”… Questa – ministro Profumo se l’appunti – è la vera priorità della scuola (e della politica) di oggi: rispettare e promuovere le differenze di genere.

“Ciò che non si dice non esiste”
Le donne, a sentire la Nistico, sarebbero dunque “invisibili” a causa degli stereotipi linguistici. Questo lo slogan, fresco di conio: “Ciò che non si dice non esiste”. Finché non cominceremo a pronunciare e a scrivere avvocata, magistrata, sindaca, consigliera…, la Tal avvocata, o magistrata, o sindaca, o consigliera è come non esistesse. Ingiustizia gravissima. Imperdonabile.
Sapete una cosa? Avete ragione. Firmo anch’io l’appello. Sono ancora in tempo?
Eh, sì. E’ ora di ridire “pane al pane e vino al vino”. E’ ora di chiamare le cose con il loro nome. Fino a quando ciò non accadrà, sarà come rendere “invisibili” pezzi interi di realtà. Avete ragione, che dico? ragionissima. Ad esempio, se scrivo “la mia amica ha un brutto male” vuol dire che non ha un tumore, ma una malattia brutta a vedersi? Se leggo “eutanasia”, o “dolce morte”, o “morte dignitosa” significa che non sono di fronte ad un suicidio (più o meno assistito), o ad un omicidio? Se parlo dell’“interruzione volontaria di gravidanza” e non nomino il bambino, significa che dentro il grembo di sua madre non c’era, prima che lei volontariamente ne interrompesse la vita e cioè lo ammazzasse?
“Ciò che non si dice non esiste”, affermano ora seccate “numerose studiose e associazioni femminili”, che pretendono la giusta visibilità. Sono le stesse che, in buona compagnia della meglio intelligenza del Paese, in questi anni si sono scervellate ad edulcorare e/o a strumentalizzare la lingua perché nascondesse la realtà. Si decidano una volta per tutte: se cambiamento del lessico dev’essere, sia. Ma a 360°. Senza “se” e senza “ma”.

“Maschile” e “femminile”. Finalmente un po’ di chiarezza… forse
Però, almeno in un punto, l’appello delle donne di Archivia fa chiarezza. Posto che si rivedano le strutture grammaticali e il lessico, “le nuove generazioni assumerebbero come naturale che nella storia ci siano due soggetti di valore equivalente, il femminile e il maschile”. Grazie, Archivia! Grazie Simonetta Fiori, che hai riportato la notizia! Grazie, Repubblica, che ci dai la dritta giusta al momento giusto! In questo periodo di caos generale; in questa “società liquida” in cui anche i sessi… fluttuano ed ondeggiano, finalmente un punto fermo. Carla = femmina, Carlo = maschio. “Due soggetti di valore equivalente”. Se poi vogliamo chiamare avvocata, assessora, magistrata lei, e avvocato, assessore, magistrato lui, no problem.
E però, scusate, mi sorge un dubbio. Sempre su Repubblica di oggi, a firma di Chiara Saraceno, nell’articolo “Se i gay sono solo un milione” si rende conto del rapporto sulla popolazione omosessuale in Italia, reso noto dall’ISTAT, e si accenna ai bisessuali e ai transessuali, e poi al tema delle adozioni agli omosessuali.
E noi – sempliciotti – che nell’appello di Archivia pensavamo di aver ritrovato il senso pieno e in-discutibile del genere “maschile” e “femminile”… Niente. Tutto da rifare.
Come la mettiamo con i bisessuali e i transessuali? Come ci comportiamo prima e dopo il coming out? E nella “battaglia per le adozioni agli omosessuali” come la risolviamo, dal punto di vista linguistico, la storia di “mamma” e “papà”?
La lingua italiana, ahinoi – anzi, a voler essere precisi, ahiloro –, prevede solo il genere femminile e il genere maschile e non lascia altri margini di manovra. A meno che non si ripristini il genere… neutro, buono per tutti i tentennamenti, i temporeggiamenti, i ravvedimenti, il “non sa/non risponde”. Buono per le questioni controverse, buono per tutti i sessi che – in barba all’anatomia e alla grammatica – gli “esperti” (?), abbracciando la moda del momento, dicunt che, oggidì, sarebbero più (?) dei soliti et banalissimi et noiosissimi due, sin qui noti.
Sapete una cosa? Aveva proprio ragione G. K. Chesterton, che così ha scritto: “Chi sposa le mode, presto rimane vedovo”. Sottoscriviamo, senza “se” e senza “ma”.

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