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Oremus et pro Iudeis

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Chi ha incontrato nella Chiesa la verità della Persona di Gesù Cristo non può non offrirla alla libertà di tutti, compresi gli Ebrei, e pregare perché giungano a riconoscerla

«Oremus et pro Iudeis: ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum, ut agnoscant Iesum Christum salvatorem onnium hominum. Onnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen”.
Si potrebbe tradurre: “Preghiamo anche per gli Ebrei: affinché Dio, Nostro Signore, illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini. Dio onnipotente ed Eterno che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza delle genti nella tua Chiesa tutto Israele sia salvo» [Nuova formula di preghiera universale per chi usa nel Venerdì Santo la celebrazione nella modalità straordinaria con il motu proprio Summorum Pontificum].

Anche nella modalità della preghiera sono necessarie due cose:
- da una parte, è assolutamente necessario il dialogo, conoscersi reciprocamente, rispettarsi anche nel pregare e quindi cercare di collaborare in tutti modi possibili per i grandi scopi dell’umanità e per i suoi grandi bisogni, per superare fanatismi e reciproche valutazioni di responsabilità morale, creando uno spirito di pace e di amore. E anche questa è evangelizzazione cioè spirito del Vangelo, il cui senso è proprio lo spirito di amore, di non giudicare chi è colpevole o innocente, spirito che impariamo dall’incontro con il Risorto memorizzando quello che ha fatto e detto Gesù. Occorre che la pace che egli ci ha donato mediante la croce facendo di due popoli, gli ebrei e i pagani, un popolo solo, diventi presente universalmente nel mondo;
- dall’altra parte comprendere che per chi ha incontrato Dio dal volto umano in Gesù cioè il Vangelo,per Lui il Signore Gesù Cristo è un grande dono per tutti, un dono di amore che non possiamo avere solo per noi stessi, ma che dobbiamo offrire a tutti gli altri, tenendo presente che Dio non costringe nessuno perché mai un rapporto costretto può essere un rapporto d’amore fin dall’inizio, pur dando la luce per giungere alla verità. E’ questa la verità. E quindi la strada di ogni cristiano in tutti i rapporti. La missione, che è la stessa ragione d’essere di chi appartiene alla Chiesa, non è una imposizione, ma è un offrire il dono di Dio, lasciando alla Sua bontà di illuminare ogni singola persona affinché si estenda il dono dell’amicizia concreta con il Dio dal volto umano presente nel volto dei suoi cioè della Chiesa per esserlo con tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo. Perciò anche nella fede celebrata e pregata chi crede non può non testimoniare la fede professata e vissuta. Trascurerebbe un dovere vero, umano e divino ogni credente che lasciasse gli altri soli, non offrisse questa sua fede a tutti, pur sempre rispettando la libertà di ogni altro. E non è ragionevole negare che la presenza storica della fede nel mondo è un elemento positivo per tutti, anche senza convertire nessuno; è comunque un punto di riferimento che aiuta anche senza convertire.
Pregare, allora, perché tutti, compresi i “fratelli maggiori”, giungano a cogliere e ad accogliere liberamente la verità della Persona di Gesù Cristo, è amore. La modalità del pregare, che diventa norma del rapportarsi, può essere espressa in modo sempre più adeguato. Nel Messale di San Pio V era prescritta per il Venerdì Santo la preghiera per gli Ebrei con le espressioni “perfidi Judaei” e “judaica perfidia”, riferite al popolo ebraico, che nel senso comune delle lingue moderne risultano offensive perché danno giudizi di responsabilità morale a livello generale, mentre originariamente, etimologicamente significano oggettivamente, per chi crede che tutto l’Antico Testamento è preparazione all’Incarnazione del figlio di Dio, “infedeltà” a questo progetto, come viene evidenziato dalla Dichiarazione della Sacra Congregazione del 10 giugno 1948. Eugenio Zolli, il grande rabbino convertito dalla testimonianza di Pio XII, aveva chiesto che fosse modificata e su analoga richiesta insistette anche il beato Ildefonso Schuster e san Giovanni Calabria. La Congregazione dei Riti, con Lettera del 19 marzo 1959 tolse l’aggettivo “perfidi” e il termine “perfidia”. E in un’altra Lettera del 27 Novembre 1959 la Sacra Congregazione dei Riti modifica anche le formule del Rituale Romano relative al Battesimo, sopprimendo per i catecumeni provenienti dall’ebraismo la frase “Ripudia l’infedeltà giudaica, rifiuta la superstizione ebraica”. Con la medesima variazione furono soppresse anche le analoghe formule di giudizio morale per chi proveniva dall’idolatria, dal maomettanesimo o da una setta eretica. Il Beato Giovanni XXIII consacrò questa formula: “Preghiamo per gli Ebrei…O Dio onnipotente ed eterno, che non rigetti dalla tua misericordia neppure gli Ebrei, esaudisci le suppliche che ti rivolgiamo per questo popolo accecato, affinché ammetta che il Cristo è la luce della tua verità, ed esca così dalle tenebre”. Non c’è più “perfidi” e “perfidia”, ma resta accecati, nelle tenebre, secondo il linguaggio neotestamentario che per la Chiesa è normativo, per non aver accolto la luce, il Verbo, Cristo, Nella nuova formula di Benedetto XVI, concedendo la possibilità straordinaria dell’uso della liturgia tridentina e rispettando il suo contenuto, ha tolto accecati, tenebre, ma solo pregando perché Israele giunga a riconoscere la verità della Persona di Gesù Cristo. Lo si chiede in ginocchio (Flectamus genua). Resta, però, formula ordinaria nel Venerdì Santo quella del Messale di Paolo VI (1970): “Preghiamo per gli Ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza”. Accogliere la Sua Parola è riconoscere Gesù Cristo, fedeltà alla Sua Alleanza è entrare nella pienezza delle genti cioè nella Chiesa.

Il nostro fondamento comune
Per conoscere l’atteggiamento di Benedetto XVI verso gli Ebrei occorre rifarsi alla Visita alla Sinagoga di Colonia, il 19 agosto 2005: “Ai giovani gli adulti hanno la responsabilità di passare la fiaccola che da Dio è stata data agli ebrei come ai cristiani, perché “mai più” le forze del male arrivino al dominio e le generazioni future, con l’aiuto di Dio, possano costruire un mondo più giusto e pacifico in cui tutti gli uomini abbiano uguale diritto di cittadinanza”.
Ha dichiarato di voler continuare il cammino di miglioramento dei rapporti e dell’amicizia con il popolo ebraico, in cui papa Giovanni Paolo II ha fatto passi decisivi. “La comunità ebraica di Colonia può sentirsi veramente “a casa” in questa città…La storia dei rapporti tra comunità ebraica e comunità cristiana è complessa e spesso dolorosa. Ci sono stati periodi benedetti di buona convivenza, ma c’è stata anche la cacciata degli ebrei da Colonia nell’anno 1424. Nel XX secolo, poi, nel tempo più buio della storia tedesca ed europea, una folle ideologia razzista, di matrice neopagana, fu all’origine del tentativo, progettato e sistematicamente messo in atto dal regime, di sterminare l’ebraismo europeo; si ebbe allora quella che è passata alla storia come la Shoà. Le vittime di questo crimine inaudito, e fino a quel momento anche inimmaginabile, ammontano alla sola Colonia a 11mila conosciute per nome; in realtà, sono state sicuramente molte di più. Non si riconosceva più la santità di Dio, e per questo si calpestava anche la sacralità della vita umana”.
Benedetto XVI ha voluto ricordare il LX anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti, nei quali milioni di ebrei - uomini, donne e bambini - sono stati fatti morire nelle camere a gas e bruciati nei forni crematori. “Gli avvenimenti terribili di allora - ha detto Benedetto XVI - devono incessantemente destare le coscienze, eliminare i conflitti, esortare alla pace. Dobbiamo insieme ricordarci di Dio e del suo sapiente progetto sul mondo da Lui creato: Egli, ammonisce il Libro della Sapienza, è “amante della vita” (11,26).
Ha ricordato, pure, il XL anniversario della promulgazione della Dichiarazione Nostra aetate con cui il Concilio ha aperto nuove prospettive nei rapporti ebreo - cristiani, soprattutto il capitolo quarto che ricorda le radici comuni e il ricchissimo patrimonio spirituale che ebrei e cristiani condividono: ebrei e cristiani riconoscono in Abramo il loro Padre nella fede e fanno riferimento agli insegnamenti di Mosé e dei profeti. La spiritualità degli ebrei come quella dei cristiani si nutre dei Salmi. Con san Paolo i cristiani sono convinti che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). In considerazione della radice ebraica del cristianesimo chi incontra Gesù Cristo incontra l’ebraismo, per cui nel rapporto ecumenico l’ebraismo viene per primo.
“Il nostro ricco patrimonio comune - ha concluso il Papa - e il nostro rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia e la pace nel mondo. Il Decalogo è per noi patrimonio e impegno comune verso una vita riuscita”.

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