Vive come l’erba… Storie di donne nel totalitarismo
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(Rm 12, 2)
«Una apologetica che non si proponeva una fuga dal mondo, bensì una allegra battaglia contro “questo mondo”. Una battaglia irriducibile».

Non si sono conformate alla mentalità dominante Ol’ga, Ella, Milena e le altre cinque donne vittime dello stalinismo, di cui si parla nel bellissimo libro “Vive come l’erba… Storie di donne nel totalitarismo”.
Origini, formazione, vicissitudini diverse; eppure queste donne, che sono state colpite da lutti, emarginazione, prigionia, torture, persecuzione, hanno qualcosa che le accomuna: una straordinaria capacità di resistenza, nella condizione durissima del gulag. E’ uno sguardo su di sé, innanzitutto, e poi sulla realtà e sulla vita, che a fronte del tentativo disumanizzante perpetrato in modo scientifico dai carnefici, va diritto all’essenza dell’uomo, all’irriducibilità dell’io, alla certezza che vi sia in ciascuno una coscienza inestirpabile, nonostante tutte le incrostazioni dell’ideologia e del male. Come quando Ella (il padre fucilato, la madre in lager, l’unica sorella morta in guerra, e poi l’arresto, il lager, due matrimoni falliti, la morte precoce dell’unico figlio…) racconta della sua esperienza in prigionia sottolineandone la «incredibile positività». Un giudizio che sconcerta, ma che si esplicita nei numerosi episodi che le salgono alla mente, per cui il campo diventa «una radicale scuola di umanità, una sconfinata possibilità di osservazione della natura umana».
Sono volti concreti, esempi di straordinaria generosità anche tra le delinquenti più depravate.
Ad Ella si acuisce lo sguardo e il campo diventa una fonte inesauribile di positivo stupore. Le donne, per esempio. «Tornavano dal lavoro disfatte ma si sistemavano i capelli perché volevano essere belle. Scrivevano lettere, ricamavano fazzoletti; non avevano una casa, una vita privata, non avevano speranze, ma la vita sì. E avevano anche l’amicizia e l’amore». «L’NKVD, il Commissariato del Popolo agli Affari Interni, incaricato delle attività repressive, non era riuscito a spezzare la nostra umanità», racconta Ella. Nemmeno l’umanità dei secondini, di cui rammenta piccoli gesti umani, sguardi, parole. «Basta non lasciarsi accecare dall’odio e dallo spirito di risentimento per accorgersi che c’è un mare di bene persino nei lager».
E’, lo sguardo di queste otto donne nei paesi del socialismo reale, uno sguardo che resta femminile anche se tutto congiura contro la femminilità, anche se la divisa vuole annullare le differenze, appiattire nell’indistinto. Dáša, condannata a 15 anni di prigione nel carcere boemo di Pardubice per alto tradimento, spionaggio e concorso in diserzione, racconta: «Non ci è permesso tenere nemmeno una forcina, nemmeno un elastico per legare i capelli. Prima di andare a dormire comincia il rito del bigodino… Abbiamo cura dei nostri ricci. E’ come se in essi rivivesse l’illusione di una femminilità non oltraggiata».
A volte, di sera, le detenute passano di cella in cella a luci spente a recitare poesie. Capiscono che l’antidoto contro la considerazione ridotta della loro umanità sono l’affetto e l’attenzione, quello che lei chiama il «fruscio della seta». Allora scelgono di coccolarsi usando i diminutivi, prestano attenzione al tono della voce, cercano di non lamentarsi. «Ognuna di noi ha qualcosa in cui credere. Abbiamo soprattutto fede in Dio», racconta. «Questo dà alla vita una dimensione che va oltre il suo confine fisico. Non abbiamo più paura di deperire, di ammalarci, d’invecchiare, di essere annientate. Preghiamo regolarmente, è una catena che non si interrompe mai, come a Cluny durante il Medioevo».
Růžena tiene lezioni di arte, filosofia, stilistica. Sono lezioni fuori dagli orari di lavoro, quando le guardie hanno terminato l’ultimo giro e chiudono i blocchi fino all’indomani. Così racconta una detenuta: «Ci incontriamo al gabinetto oppure in bagno, ci sediamo sulle casse e sui secchi della marmellata e sui seggiolini che ci siamo costruite, ascoltiamo le lezioni e prendiamo appunti con zelo. Růženka tiene un corso di archelogia… Nina ci insegna le lingue straniere, Jarinka storia, ognuno contribuisce come può… Discutiamo di teologia, filosofia, arte, di politica, non c’è argomento che non vorremmo studiare. Il gabinetto è la nostra arena oratoria, la nostra università, il nostro tutto, il ritorno alla vita, all’istruzione, alla coscienza che i nostri anni non sono del tutto sprecati».
Natal’ja, filologa per missione, traduttrice per amore alla bellezza, attraverso il samizdat ha fatto conoscere in URSS i testi di Lewis, di Chesterton, di altri scrittori a quel tempo proibiti. «Se un autore ha fatto del bene a me personalmente e ai miei amici, magari sarà d’aiuto anche a qualcun altro», pensa. E così legge e prepara traduzioni come «antidoto al veleno». «Una apologetica che non si proponeva una fuga dal mondo, bensì una allegra battaglia contro “questo mondo”. Una battaglia irriducibile».
E infatti non viene mai meno la capacità di un giudizio storico, nella quotidianità di queste donne straordinarie, né il coraggio della battaglia.
Růžena e molte delle sue compagne si sono sempre rifiutate di lavorare la domenica e non risparmia, apertamente, critiche al socialismo. E quando alcuni suoi conoscenti cercano di dissuaderla dall’impegnarsi nel dissenso, dato che è diventata anziana, risponde. «Sono come quei muli dell’esercito, così malandati, ma che quando sentono il rullo dei tamburi si alzano di scatto e si mettono a tirare».
Milena non perde occasione di giudicare con chiarezza il governo di Stalin, né di condividere i propri valori antisovietici, ossia umani e religiosi, con le persone che incontra, specialmente i giovani.
Dáša, nelle sue memorie, scrive: «Eravamo state messe faccia a faccia con qualcosa di nuovo… Era un complotto premeditato, scientifico, contro ciò che distingue un essere umano dalle altre creature. Infatti non si trattava neppure di distruggerci fisicamente… Si trattava di distruggere la coscienza dell’io umano, perché cessi di esistere… Ci veniva offerta la possibilità di conoscere da vicino tutto ciò che la vita umana contiene, dalle vette più alte fino alle buie cadute, stavamo procedendo in un pellegrinaggio che ci portava attraverso le vie del pensiero e del comportamento umano, del sentimento, della bellezza e del male e di tutto quello di cui è capace l’uomo. Ma non ci siamo limitate a macinare preghiere, ci lanciavano in battaglia come i primi crociati di Clermont… Non dobbiamo dimenticare che eravamo tutt’altro che le sante cristalline delle vetrate delle cattedrali… Non concedemmo un attimo di respiro ai nostri aguzzini»
Ol’ga. I suoi giudizi sul potere nascono sempre dalla misericordia e dalla compassione, ma non si tira mai indietro quando c’è da rischiare, come quando sceglie degli affreschi di epoca bizantina come argomento per la tesi, ben sapendo che sarebbe stata accusata di rifiutare, con questo tema, l’ideologia sovietica, e avrebbe rischiato di essere cacciata dall’università.
Natal’ja amava ricordare che «ci è stato detto “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”, e non, ad esempio, come cani da guardia».
Sono solo alcuni esempi. Ma non perdetevi “Vive come l’erba”: leggerete la storia di otto donne che in vario modo hanno avuto il coraggio di opporsi all’annientamento progettato dal socialismo reale, che voleva «strappare il cuore dal petto dell’uomo, costringere la sua anima a una prostrazione servile». Ed è significativo ciò che disse padre Vladimir Lapšin alle esequie di Natal’ja, ricordando che la sua morte è avvenuta alla vigilia dell’anniversario della scomparsa di Giovanni Paolo II, da lei amatissimo, perché era l’uomo che «in un’altra epoca, in un mondo completamente diverso, aveva pronunciato le parole più necessarie: “Non abbiate paura!”… In lui si univano un’estrema semplicità e un rigore evangelico che escludevano il pericolo di strisciare servilmente ai piedi del mondo o di volere indurre al bene con la costrizione». «Veneriamo il grande Papa – aveva concluso il religioso - preghiamo e non avremo paura. La paura è un grave impedimento ad aiutare sia gli uomini che Dio».
«Non abbiate paura!», l’invito di Giovanni Paolo II. Sono parole che si levano, potenti, anche ad ogni pagina di questo libro. E sono per noi, oggi, qui.