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Una profezia dal passato

Fonte:
CulturaCattolica.it
Quanto sta accadendo tra noi ricorda le terribili avventure raccontate da Solženicyn in «Arcipelago Gulag». Al di là delle generiche affermazioni per cui la legge sulla cosiddetta omofobia, transfobia & similia non configurerebbe un «reato di opinione» (cosa a cui sembra credere il solo Tarquinio), lo scenario che si preannuncia ricorda tempi tristi e disumani. Chissà se il ricordo di quanto il totalitarismo comunista ha generato aiuterà qualcuno a un sussulto di reazione, e di amore alla verità e libertà e dignità delle persone!

Per tracciare una retta basta segnare due soli punti.



Nel 1920, ricorda Erenburg, la CEKA gli formulò la domanda così: «Ci dimostri che non è un agente di Vrangel’».
Nel 1950, uno dei colonnelli più eminenti della KGB, Foma Fomic Zelezov, dichiarò ai detenuti: «Noi non faticheremo a dimostrare la vostra colpa. Dimostrateci voi di non aver avuto intenzioni ostili».
Su questa linea retta, cannibalesca nella sua semplicità, s’inseriscono nei punti intermedi innumerevoli ricordi di milioni.

Quale semplificazione e fretta nell’istruttoria, sconosciute fino ad allora all’umanità! Gli Organi si erano esentati del tutto dalla fatica di cercare le prove. Il coniglio acciuffato, tremante e pallido, privato del diritto di scrivere, telefonare, portare qualcosa con sé, privato del sonno, del cibo, della carta, d’una matita e perfino dei bottoni, seduto su uno sgabello nell’angolo di un ufficio doveva trovare DA SÉ ed esporre all’ozioso giudice istruttore le prove di NON aver avuto intenzioni ostili! E se non le trovava (come avrebbe potuto procurarsele?) offriva all’istruttoria le prove approssimative della propria colpevolezza!
Conosco il caso di un vecchio che era stato prigioniero dei tedeschi ed era riuscito, seduto sul nudo sgabello e gesticolando con le nude dita, a dimostrare al suo mostro di giudice istruttore di NON aver tradito la patria e di NON aver neppure avuto tale intenzione. Caso inaudito! Credete lo abbiano liberato? Macché. Egli me lo raccontò, non su un viale di Mosca ma in prigione. Al giudice istruttore principale se ne era aggiunto un secondo, passarono col vecchio una tranquilla serata di reminiscenze, dopo di che i due firmarono deposizioni di testimoni: quella sera il vecchio affamato e sonnecchiante aveva fatto loro discorsi di propaganda antisovietica! Il vecchio aveva parlato con tutta semplicità, ma era stato ascoltato ben diversamente. Fu affidato a un terzo giudice. Questo gli tolse l’accusa, non fondata, di tradimento della patria, ma gli vergò accuratamente la solita condanna: dieci anni per propaganda antisovietica in corso d’istruttoria.

Cessando di essere ricerca di verità, l’istruttoria divenne per gli stessi giudici, nei casi difficili esercizio delle mansioni d’un boia, in quelli facili un semplice passatempo, un modo di guadagnarsi lo stipendio.
Casi facili capitavano sempre, anche nel famigerato anno 1937. Per esempio Borodko era accusato di aver visitato i genitori in Polonia sedici anni prima, senza munirsi di passaporto valido per l’estero (i suoi abitavano a dieci chilometri, ma i diplomatici si erano accordati per assegnare quella parte della Bielorussia alla Polonia; nel 1921 la gente non era ancora abituata a tale situazione e si spostava come prima). L’istruttoria occupò una mezz’ora: «Ci andavi?». «Sì.» «Come?» «A cavallo.» Ebbe dieci anni per Attività Controrivoluzionaria.
Ma tanta rapidità sa di movimento stachanovista, e non trovò seguaci fra i berretti celesti.
Secondo il codice di procedura penale ogni istruttoria doveva durare un paio di mesi e in caso di difficoltà era lecito chiedere al pubblico accusatore la proroga di un mese, da concedersi anche più volte consecutive (il pubblico accusatore non rifiutava mai, beninteso). Sarebbe stato sciocco rovinarsi la salute, non valersi delle proroghe, parlando in termini di fabbrica: «gonfiare la norma». Dopo aver faticato con l’ugola e il pugno nella prima settimana d’urto di ogni istruttoria, prodigato energia e carattere (secondo Vysinskij), i giudici istruttori avevano interesse a tirare tutto per le lunghe in modo da avere più cause vecchie, e tranquillità, meno di quelle nuove. Era considerato addirittura indecente terminare un’istruttoria politica entro due mesi.

Il sistema statale castigava se stesso per la propria diffidenza e inflessibilità. Non si fidava neppure dei quadri più selezionati; certamente erano costretti a segnare l’ora di entrata e di uscita com’era obbligatorio registrare quelle dei detenuti ai fini del controllo. Cos’altro rimaneva ai giudici istruttori per gonfiare il numero delle ore? Chiamare qualcuno degli indiziati, farlo sedere in un cantuccio, porre qualche domanda intimidatoria e poi dimenticarlo; leggere a lungo il giornale, compilare un riassunto per la lezione di politica, scrivere lettere private, fare visitine gli uni agli altri, lasciando al proprio posto, a mo’ di mastino, una guardia. Seduto pacificamente sul divano con un amico venuto a scambiare quattro chiacchiere, il giudice istruttore di tanto in tanto si ricordava dell’accusato, gli dava uno sguardo minaccioso:
«Canaglia; che rara canaglia! Poco male, non ci dispiacerà sprecare nove grammi per lui.»
Il mio giudice istruttore si valeva anche del telefono. Chiamava la propria abitazione e diceva alla moglie, lanciandomi occhiate significative, che avrebbe interrogato tutta quella notte, non lo aspettasse prima del mattino (io provavo un tuffo al cuore: dunque sarei stato lì tutta la notte!). Ma subito quello faceva il numero dell’amante e con tono mellifluo le annunziava che a momenti sarebbe andato da lei per passare la notte insieme (potrò dormire! mi rassicuravo).
Così un sistema irreprensibile era macchiato solo dai vizi degli esecutori.

Altri giudici, più desiderosi di sapere, amavano valersi di tali interrogatori «a vuoto» per allargare la propria esperienza. Facevano all’accusato domande sul fronte (su quei famosi carri armati tedeschi sotto i quali non trovavano mai il tempo di buttarsi); sulle usanze dei paesi europei e d’oltremare, se quello c’era stato; sui negozi, sulle merci; e soprattutto sui bordelli esteri e su varie avventure con donne.
Secondo il codice processuale un rappresentante del pubblico accusatore dovrebbe costantemente seguire l’andamento di ogni istruttoria. Ai tempi nostri nessuno lo vedeva mai, fuorché al cosiddetto «interrogatorio del procuratore»: significava il termine dell’istruttoria. Ci portarono anche me. Il tenente colonnello Kotov, calmo, ben pasciuto, biondiccio e indifferente, per niente malvagio e per niente buono, una nullità, era seduto alla sua scrivania e sbadigliando sfogliava per la prima volta il mio incartamento. Per una quindicina di minuti continuò a studiarlo (poiché l’interrogatorio era inevitabile e la sua durata veniva registrata, non avrebbe avuto senso studiarlo precedentemente, in un tempo non retribuito e magari dover tenere a mente i fatti). Poi alzò gli occhi indifferenti, fissò la parete e mi chiese pigramente se avevo altro da aggiungere alle mie deposizioni.
Avrebbe dovuto chiedere se avevo qualche lamentela riguardo all’andamento dell’istruttoria, se erano state esercitate pressioni sulla mia libera volontà e se vi era stata qualche violazione della legalità. Ma era molto tempo che i procuratori non facevano simili domande. E se anche le avessero, fatte? Tutto quell’edificio del ministero con le sue mille stanze e cinquemila uffici d’istruzione, vagoni, caverne e capanne di terra disseminati in tutta l’Unione vivevano unicamente di violazioni della legalità e non stava a me né a lui cambiare quello stato di cose. Del resto tutti i rappresentanti più o meno autorevoli del pubblico accusatore occupavano il posto col consenso di quella stessa Sicurezza dello Stato che avrebbero dovuto... controllare.

La fiacchezza dell’uomo, pacifico, stufo di tutte quelle interminabili sciocche pratiche si trasmise in qualche modo anche a me. Non sollevai questioni di verità. Chiesi solo fosse corretta un’assurdità troppo palese: eravamo accusati in due, ma l’istruttoria si era svolta separatamente (la mia a Mosca, quella del mio amico al fronte), e quindi io ero solo, mentre ero accusato secondo il punto 11, cioè come gruppo, come un’organizzazione. Lo pregai sensatamente di eliminare quell’aggiunta del punto 11. Lui sfogliò l’incartamento per altri cinque minuti, sospirò, spalancò le braccia e disse:
«Ebbene? Un uomo è un uomo solo, ma due uomini sono persone.»
(E un uomo e mezzo è un’organizzazione?...)
Egli premette un bottone perché fossi portato via.

Poco tempo dopo, una sera della fine di maggio, fui chiamato dal mio giudice istruttore nel medesimo ufficio del procuratore, con l’orologio di bronzo sul caminetto di marmo; si trattava della «duecentosei»: così si chiamava secondo il CPP la procedura dell’esame di una pratica da parte dell’accusato e della apposizione della sua ultima firma. Non dubitando minimamente che avrebbe ottenuta la mia, il giudice stava già vergando la conclusione dell’accusa.
Io aprii il grosso incartamento e già all’interno della copertina lessi nel testo stampato una cosa sconvolgente: risultava che nel corso dell’istruttoria avevo il diritto di esporre lamentele scritte su irregolarità nello svolgimento dell’istruttoria stessa, e il giudice aveva il dovere di includere tali mie lamentele in ordine cronologico nell’incartamento. Nel corso dell’istruttoria! Non al suo termine.
Purtroppo nessuno delle migliaia di detenuti con i quali mi sono trovato in seguito era al corrente di tale diritto.
Continuai a sfogliare. Vidi le fotocopie delle mie lettere e l’interpretazione che ne falsava completamente il senso, fatta da ignoti commentatori (come il capitano Libin). Vidi anche l’iperbolica menzogna di cui il capitano aveva rivestito le mie caute deposizioni. E infine l’assurdità che io, da solo, ero accusato come «gruppo».
«Non sono d’accordo. Lei ha svolto scorrettamente l’istruttoria» dissi senza troppa decisione.
«Bene, ricominciamo pure tutto daccapo!» serrò le labbra quello con aria sinistra. «Ti manderemo là dove teniamo i Polizei.»
Tese perfino la mano come per riprendersi il volume della «causa» (e io, subito, lo trattenni con un dito).
Un tramonto dorato sfavillava, chissà dove, di là dalle finestre del quinto piano della Lubjanka. Chissà dove era maggio. Le finestre dell’ufficio, come tutte quelle esterne del ministero, erano ermeticamente chiuse, perfino incollate come durante l’inverno, perché l’aria fresca e il polline non penetrassero in quelle stanze segrete. L’orologio di bronzo sul camino, dal quale se n’era andato l’ultimo raggio, suonò l’ora piano piano.
Daccapo? Sembrava meglio morire che ricominciare il tutto daccapo. Bene o male, mi balenava davanti una vita. (Avessi saputo quale!) E poi, il posto dove tengono i Polizei... Non bisognava farlo arrabbiare, dipendeva da lui in quale tono avrebbe formulato l’accusa conclusiva.
Firmai. Firmai insieme al punto 11. Non ne conoscevo allora il peso, mi era stato detto soltanto che non comportava un supplemento di pena. A causa dell’11° punto capitai in un lager di lavori forzati. Sempre a causa del punto 11 fui mandato, senza alcun verdetto, in deportazione perpetua dopo la «liberazione».
Meglio così, forse. Senza l’uno e l’altro non avrei scritto questo libro...



Il mio giudice istruttore non aveva usato con me altri mezzi all’infuori dell’insonnia, delle menzogne e delle intimidazioni, mezzi perfettamente legittimi. Non ebbe dunque bisogno di farmi apporre una seconda firma a fianco dell’articolo 206, come solevano fare, per proteggersi le spalle, i giudici istruttori che avevano fatto qualche marachella. Io sottoscritto m’impegnavo, cioè a rischio di subire una pena (non saprei secondo quale articolo), a non divulgare e a non raccontare mai a nessuno i metodi con cui era stata svolta la mia istruttoria.
In certe sezioni regionali della NKVD questo provvedimento era applicato in serie: il modulo stampato sulla non-divulgazione era infilato insieme al verdetto del Consiglio speciale della NKVD perché il detenuto li firmasse. (Al momento della liberazione dal lager si richiedeva anche di firmare che non avrebbe mai raccontato quanto vi succedeva.)
Ebbene, la nostra abitudine alla docilità, la nostra schiena piegata (o spezzata) non ci permettevano di rifiutare, o solo di indignarci per questo metodo da banditi di far sparire le tracce.
Abbiamo perduto il METRO DELLA LIBERTÀ. Non abbiamo modo di determinare dove comincia e dove finisce. Siamo un popolo asiatico, e chiunque ne abbia voglia continua a farci apporre firme, sempre firme, con l’impegno di «non divulgare» questo o quello.
Non siamo più certi nemmeno di avere il diritto di raccontare quanto è successo nella nostra vita.

(Solženicyn, Arcipelago GULag, pp. 150-156)

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