Perché sono diventato cattolico
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La strada che mi ha condotto alla Chiesa non è stata aperta da me, ma io l’ho imboccata. Era tracciata dinanzi a me e non potevo fare a meno di percorrerla. Ora, peraltro, non sono in grado di descriverla come se la vedessi dall’alto o dalla meta raggiunta. Tutto ciò che vedo, non sono che sentieri in cui mi inoltrai, per constatare ben presto che non si trattava che di vicoli ciechi. Tra l’uno e l’altro sentiero non c’era, infatti, comunicazione, eppure io ho percorso una vera e propria strada che Dio solo conosce. Potrei, è vero, cercare di ricostruirla, ma correrei il rischio di porre in rilievo le cose insignificanti, trascurando le sostanziali, senza poi nemmeno esser certo della mia obbiettività.
D’altronde, descrivere dettagliatamente il cammino da me percorso per giungere alla Chiesa, non è poi indispensabile. Ciò che importa qui non è di soddisfare una curiosità, per devota che sia, ma di mettere in primo piano la verità. Conviene quindi maggiormente che io parli delle circostanze che hanno contribuito e mi hanno aiutato a intraprendere questo cammino e soprattutto che io parli dei motivi che mi hanno mosso. Il meno che si possa chiedere a chi è stato pastore e professore di teologia fuori della Chiesa – ma col cuore già dentro di essa da parecchio tempo – da parte dei membri della comunità che ha lasciato, come da parte della Chiesa che lo accoglie, è di rendere conto dei motivi che lo hanno mosso.
In effetti, sono tanti gli avvenimenti che hanno cooperato a dirigermi verso la Chiesa, dapprima lentamente e poi con sempre maggior facilità, che più semplicemente potrei dire che vi è stata la contribuzione di tutte le vicende della mia vita, e in maggior grado, proprio di quelle che. sembravano più insignificanti. Come interpretare altrimenti gli anni di studio alla scuola di un K. Barth, di un R. Bultmann, di un M. Heidegger? Mi sia permesso di ricordarli con riconoscenza ancor oggi per quella profonda segreta comunione che ci legava. Benché non stia scrivendo la storia della mia vita, tuttavia mi piace citare qualche circostanza, qualche incontro e esperienza se non altro per mostrare che i motivi che mi hanno guidato non provengono da pura astrazione ma sono radicati nella vita stessa.
Certamente ebbe influsso su di me la pietà semplice di mio padre, tutta impregnata di luteranesimo bavarese con qualche tratto «cattolico»; né di poco conto fu il fatto, mi sembra, di aver trascorso la mia infanzia in un ambiente cattolico. Sono cresciuto all’ombra di una grande chiesa chiamata «Zur Schönen Unserer Lieben Frauen» (Alla nostra bella amabile Signora). Il maestro ci spiegava che ciò equivaleva a dire: «Nostra Signora della Bellezza». Mi sono sempre domandato il perché di questa strana denominazione a quel tozzo edificio di mattoni, di stile gotico, che non aveva nulla di bello. In questa città che aveva anche una vecchia Università, in cui ebbe a insegnare, di passaggio, S. Pier Canisio, l’atmosfera non solo cattolica, ma anche cattolicamente tollerante, mi fece respirare aria di casa e fu così che non si radicò in me alcun sentimento anticattolico. Trovavo il cattolicesimo del tutto naturale, come il mio paese natio e l’aria che respiravo. Pur essendo un luterano convinto, non ho mai sentito avversione al cattolicesimo, anzi ne provavo una segreta propensione.
Questi influssi dell’ambiente da me subiti da giovanetto sono ormai cosa lontana e evanescente. Ben altrimenti concreta e presente alla mia coscienza è l’influenza che su di me esercitarono gli incontri con cattolici e con lo spirito cattolico. Non che voglia qui far paragoni o pronunciare giudizi, giacché non ne ho il diritto; e nemmeno che io abbia mai, a quanto mi consta, vissuto nell’illusione che i cattolici siano uomini speciali e ignori che anche tra loro il loglio si mescola al buon grano. Ma è pur vero che mi colpiva particolarmente un fatto, per me più importante di quanto qualcuno possa credere. Osservavo cioè che la vita di un cattolico, non fosse altro che per la singolare solidità della sua fede, esce in qualche modo dagli schemi banali della comune vita. Poco importa se questo sentimento si manifesta con la sua semplicità o con la sua stranezza. Il cattolico ha una certa umiltà rassegnata – anche l’uomo usa inginocchiarsi! – ha una visione concreta di se stesso e del peccato, tale da ispirargli una misericordiosa indulgenza o umanità, se non altro verso se stesso.
Tutti questi elementi e altri ancora più profondi, li ritrovai poi in forma genuina in uomini e donne di grande pietà, in cui splendeva (non è solo una bella frase) lo spirito di Cristo. Non potendo qui citare persone che sono ancora in vita, voglio ricordare, fra gli estinti, l’abate Angelo di Ettal, vero «messaggero» del Signore e autentico figlio di S. Benedetto, e anche la schiera, allora esigua, dei suoi figli, che nei miei riguardi applicarono sempre la loro regola: «omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur». E voglio ricordare anche un uomo di tutt’altra tempra, anche lui vero figlio del suo padre spirituale, e che allora era confinato a Ettal: padre Ruperto Mayer. Mi dava l’impressione di un leone prigioniero che morde le sbarre della gabbia. Con quanta impazienza, infatti, non aspettava di giorno in giorno la libertà per tornare al suo ministero! Davanti a questi e a tanti altri uomini, umili e pronti, misericordiosi e risoluti, che in comunità o singolarmente vivevano imitando Cristo, quanto mi sembrava meschina la riluttanza che il protestantesimo ha ad accettare un modello concreto da imitarsi, con lo specioso pretesto che ciò non si concilia con la «parola» e con l’«obbedienza». Non c’è linguaggio più efficace dell’esempio; e imitarlo costituisce una obbedienza più perfetta.
Naturalmente, anche nella letteratura mi imbattei spesso nello spirito cattolico. Non nasconderò che talora compravo e leggevo con profitto quei manualetti ed opuscoli che vengono offerti sulle porte delle chiese. La verità si riveste spesso di modestissime forme. Anche la rivista «Hochland», che cominciai a leggere regolarmente dal 1929, mi illuminò su parecchi problemi. Lessi la «Saggezza di S. Francesco di Sales» di Camus, le opere del Möhler e del Newman, le prime pubblicazioni di Theodor Häcker e poi Bernanos, Claudel e gli scritti, troppo poco conosciuti, di Erik Peterson. Era la strada di cui si serviva lo Spirito Santo per illuminarmi. La formazione dogmatica, poi, la debbo soprattutto all’opera del Diekamp, che dapprima mi sembrò arida, sconcertante, e poi mi affascinò. Cominciai a capire che la teologia presuppone una «Rivelazione» concreta e capii anche che in essa ogni cosa ha il suo armonico posto.
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Comunque, tutte queste letture cui ho accennato sommariamente, non avrebbero su di me avuto effetto, se la mia disposizione, anzi aspirazione verso ciò che è cattolico non fosse stata rinforzata da alcune esperienze che feci nell’adempimento del mio ministero di pastore, e dalle lotte che condussi nella «Chiesa confessante» (Bekennende Kirche). Queste lotte, intorno al 1930, non furono soltanto indice che vi erano degli uomini coraggiosi e profondamente pii, decisi a difendere la sostanza cristiana della chiesa evangelica contro gli attacchi del famoso movimento politico e pseudo-religioso dei «cristiani tedeschi» e contro l’anticristianesimo del «Terzo Reich», ma erano altresì indice del bisogno di ristabilire il senso di «chiesa» in seno al protestantesimo. Nella mia avversione per il Reich di Hitler e per le fantasticherie dei «cristiani tedeschi» cui Hitler teneva bordone, mi sentii solidale con la «Chiesa confessante» e tale rimasi fino alla fine. Tuttavia, nell’espletamento delle mansioni di pastore e nelle discussioni che avvenivano nei Sinodi, constatavo che tutti gli sforzi per giungere a una «chiesa» sarebbero stati vani, dato che non si riconoscevano determinati princìpi fondamentali. Vedevo sempre più chiaro che non solo c’erano divergenze confessionali nel senso che c’erano diversi simboli riformatori, «Confessioni», ciò che anzi era peggio, queste «Confessioni» che erano state una volta le basi delle chiese evangeliche non erano più riconosciute come tali. Ma c’era di peggio. La vecchia teologia confessava che il contenuto concreto di una «Confessione» costituiva un luogo dogmatico che vincolava la chiesa. Ora, invece, si rigettava tutto questo, tacciandolo di confessionalismo. Si diceva speciosamente: «Poco importa che una confessione aderisca o meno al simbolo o «Confessione»; basta che sia confessante. La testimonianza che aderisce a questa o a quella confessione non significa altro che orientare la fede in una determinata direzione. La fede infatti non è adesione ad alcuna verità definita (ed in effetti non è esclusivamente questo), ma tutt’altra cosa». Era chiaro: al principio dogmatico si sostituiva il principio carismatico, laddove il carisma personale dello Spirito, ossia la fede personale che si accende a contatto della Sacra Scrittura, poggia appunto sul dogma e non può sostituirlo. Il carisma manifesta la vitalità della Chiesa, ma non è il suo fondamento. La stessa difficoltà sorgeva nella chiesa confessante quando si tentava di precisare «la funzione» e di metterne in risalto il fondamento. Se oggi mi domando in virtù di quale potere io esercitavo il mio ministero di pastore, sono quasi preso dallo spavento. Esso si basava, infatti, su nient’altro che sulla preparazione professionale, su una propria decisione, sul consenso di una comunità e sul riconoscimento di un direttorio o di una autorità ecclesiastica. Nella Chiesa confessante prevaleva l’idea che la «funzione» si fondava sul carisma. Mi rendevo sempre più conto che così non era sufficiente. Cosa strana a dirsi, la «funzione» riposava sull’amministrazione temporale. Oggi nelle chiese evangeliche a proposito di questi e analoghi problemi non si sollevano più obiezioni, ma sembra che si tratti piuttosto della quiete della rassegnazione. Così abbandonati. si agisce in materia ecclesiastica e teologica in modo ben strano e, tuttavia, coerente. Del dogma decide disciplinarmente una burocrazia ecclesiastica. In teologia alcuni scalzano dall’interno il cosiddetto principio fondamentale della chiesa evangelica, il canone della Sacra Scrittura, e lo sostituiscono col canone della ispirazione, infiammata a contatto della parola della Sacra Scrittura. Nel medesimo tempo si attacca il Sacramento del Battesimo in quanto, sia nell’insegnamento che nella pratica, si rifiuta il Battesimo dei fanciulli. In più vi è il malessere della cosiddetta «smitizzazione» del Nuovo Testamento che, senza volerlo, è tale da corrompere la sostanza della fede della chiesa evangelica. Di fronte a tutto questo, come non si può guardare a quella Chiesa che, nonostante qualche difetto e qualche sbandamento nei particolari, ha sempre serbato i principi fondamentali ed è, quindi, rimasta la Chiesa di Cristo, e sempre può rinnovarsi?
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Tutto questo complesso di circostanze, di esperienze e di incontri hanno cooperato a farmi diventare cattolico. Ma l’impulso decisivo è venuto da un’altra parte, e cioè dal Nuovo Testamento la cui esegesi era la mia specialità. Cominciai dunque a domandarmi se la confessione luterana e, ancor più, la nuova fede evangelica da essa ampiamente discostatasi, concordasse con le testimonianze del Nuovo Testamento, e acquistai gradatamente la certezza che la Chiesa che gli corrisponde è proprio la Chiesa romano-cattolica. E’ stata quindi, per così dire, una strada protestante a condurmi alla Chiesa, una strada che è addirittura prevista, se anche non auspicata, nelle Confessioni luterane. Devo aggiungere che a condurmi alla Chiesa è stato il Vangelo quale si offre ad una interpretazione storica imparziale. Ciò non contraddice a quanto dirò in seguito, ossia che ogni interpretazione della Sacra Scrittura deve avvenire nello spirito della Chiesa se vuole essere giusta, giacché, lo spirito della Chiesa non esclude un’indagine storica imparziale. Lo spirito della Chiesa, anche sotto questo riguardo, non è spirito di servitù e di timore, ma di figliolanza. Un’indagine veramente aperta ai fenomeni storici è anch’essa un modo di far risplendere la verità, anch’essa può essere strada che conduce alla Chiesa. Perciò serbo ancor’oggi grata memoria degli insegnanti che mi hanno iniziato a quest’indagine.
Cosa dunque mi rivelò il Nuovo Testamento quando, per mezzo di esso, cominciai a comprendere la Chiesa e la sua fede? Non posso esporre qui tutti i particolari del cammino percorso, altrimenti dovrei addirittura scrivere un lungo trattato di teologia neotestamentaria. Accennerò perciò solo ad alcune esperienze che furono decisive per il mio ritorno alla Chiesa.
La prima esperienza in ordine logico è questa: lo stesso Nuovo Testamento conosce già e presenta lo sviluppo del deposito apostolico. E’ questo un dato di fatto fondamentale, senza del quale è impossibile comprendere la Tradizione in senso lato. Lo stesso Cristo si comunica alla Chiesa e ovunque: ecco la verità ritenuta e documentata fin «da principio» vale a dire dalle origini del Nuovo Testamento. In unione con il deposito apostolico, che non si esaurisce nel solo testo scritto del Nuovo Testamento, questa verità si manifesta sempre più nella tradizione generale della Chiesa. In altro modo non sarebbe possibile, dal punto di vista teologico, comprendere come la tradizione di Gesù abbia dato luogo ai Vangeli e in essi sia contenuta. Nessun’altra esegesi – il che appare soprattutto dal quarto Vangelo – è ammissibile: Gesù Cristo interpreta la sua «parola originaria» per mezzo dello Spirito Santo, nella fede della Chiesa. Lo sviluppo del dato iniziale è attestato anche dalle lettere paoline e non soltanto, per fare un esempio, nello sviluppo del concetto di «Chiesa», ma anche in quello di fenomeno storico che essa costituisce. Anzi, le lettere pastorali ci documentano una nuova situazione della Chiesa, fornendoci delle riflessioni precise sullo sviluppo della Tradizione. Non si può dunque negare che il Nuovo Testamento conosce già il processo di sviluppo, e di esplicazione dei fenomeni storici. Lo ha messo in evidenza anche la critica storica. Al massimo si potranno dare di questo processo due diverse interpretazioni: o come volontà di conservare la sostanza del deposito e di studiarla a fondo, onde presentarla sotto una luce sempre nuova ed in una esplicitazione sempre maggiore; oppure come evoluzione indebita che si allontana sempre più dal principio originario, anzi opponendosi attraverso pretese successive innovazioni, il cui obiettivo finale sarebbe il «rinnegamento» del fatto primogenito e della parola iniziale. Ora, a mio avviso, questa seconda interpretazione del fenomeno non solo si arresta a mezza strada, cioè vede le cose in superficie dove si contraddicono sovente, mentre si accordano in profondità; ma, oltre a ciò, è pietistico-riformista e si erige a giudice del dogma, pretendendo che storicamente la Chiesa abbia tradito la sua missione.
Senonché questa tesi, nel corso del tempo, è giunta di per se stessa all’assurdo. E questo fa pensare. La tesi del pietismo-riformista vedeva questo momento di apostasia nella Chiesa del Medioevo; in seguito si è andati sempre più a ritroso per giungere prima al quarto secolo, all’epoca costantiniana, poi al secondo secolo, al periodo post-apostolico, e infine all’epoca stessa del Nuovo Testamento, dove si è voluto opporre al «cattolico» Luca il «protestante» Paolo. Ma non basta: nello stesso apostolo Paolo, e analogamente in Giovanni, si sono voluti vedere due aspetti: il Paolo che «Cristo sospinge» (Christus treibet), come dice Lutero, e l’altro che inclina piuttosto verso una virtù magica dei Sacramenti, o anche la parusia concreta, ossia «cattolica». Quando invece si smetta di credere che la Chiesa si sia «rinnegata» a più riprese, questo o quel passo del Nuovo Testamento permetterà all’esegeta attento e sereno di concludere che l’esplicitazione della dottrina di Cristo è avvenuta di per se stessa, benché l’unità logica di questo sviluppo non appaia a prima vista.
Ma, a guardarci attentamente, il principio indefettibilmente difeso dalla Chiesa era già stabilito dall’era apostolica, cioè: la Chiesa, in virtù dell’assistenza dello Spirito Santo, è sempre identica a se stessa e con ciò la sua Tradizione è essenzialmente integra!
Ancora più importante e fondamentale è la seconda affermazione del Nuovo Testamento. E’ l’apostolo Giovanni che la proclama e tutti gli altri apostoli che hanno scritto la confermano in vario modo: il Verbo si è fatto carne. Questa parola è la chiave che dischiude lo spirito; chiave essenziale per comprendere il cristianesimo; chiave sufficiente per comprendere la Chiesa romano-cattolica. Quale senso attribuirle? I cristiani sono sempre stati divisi su questo punto, e anche oggi il consenso non è unanime. La Chiesa evangelica e la sua teologia riconoscono l’Incarnazione, senza peraltro riconoscere tutto il contenuto e senza tirarne tutte le logiche conseguenze. Con l’Incarnazione il Logos, secondo il Vangelo di Giovanni, è entrato nell’uomo Gesù e con ciò nel mondo degli uomini come nel suo mondo, nel mondo che serve alla sua Rivelazione. Con questo entrare nell’uomo Gesù e nel suo mondo, Lui, l’eterno Logos, per cui tutto è stato creato e illustrato, ora si vela sotto la storia «carnale» di questo mondo e si manifesta attraverso essa come Logos. In tal modo esclusivo egli manifesta la pienezza della sua «doxa» e la sua realtà illuminatrice e vitale a chi è disposto a vederla. Quindi né della «carne», né della sostanza storica del mondo, né di ogni sua struttura generale, nulla è escluso, tutto può essere mezzo, strumento, supporto, dimora, efficacia del Logos tenuto ad abitare presso di noi. Lo vediamo nello stesso Vangelo di Giovanni in cui appare non solo la «parola» di Gesù, ma anche le sue opere e i suoi segni e i suoi miracoli; e oltre che i segni e i miracoli, anche il suo corpo e il suo sangue; e oltre che il suo corpo e il suo sangue, anche il suo «memoriale», la trasmissione della sua persona per opera dello Spirito Santo; c’è Gesù stesso, ma ci sono anche i suoi discepoli e i discepoli dei discepoli: tutto questo affinché l eterna esigenza del Logos e con ciò la salvezza del mondo si manifesti «carnalmente» sotto tutti gli aspetti, in tutti i sensi, onde trionfare. La Rivelazione secondo il Vangelo di Giovanni è fondamentalmente l’entrata del Logos in tutto ciò che si riferisce alla «carne»; è l’azione efficace del Logos attraverso ogni «carne» che Egli a questo scopo si elegge. Ecco come questo Vangelo, cosiddetto «spirituale» ci offre una immagine così materiale, o meglio, così «carnale» del Verbo. La critica moderna lo conferma, quando considera questi tratti come redazione di una scuola ecclesiale che avrebbe tradito la spiritualità dell’autore primitivo. Ciò che San Giovanni dice della Tradizione «carnale» del Verbo, è il supporto stesso del così spesso deprecato «materialismo» della Chiesa romano-cattolica. Per quanto si cerchi di svalutarla, la prova è lampante: trattasi di una realtà storica di origine apostolica. Il Verbo s’è fatto «carne» e non parola: così possiamo obbiettare alla moderna interpretazione protestante della Rivelazione. E si potrebbe anche aggiungere che, forse, questa esegesi parte proprio dal Luteranesimo. Poiché il Verbo si è fatto carne e non solo parola, non c’è solo la predicazione, ma anche il sacramento; non c’è solo la testimonianza, ma anche il dogma; c’è anche la santificazione e la trasfigurazione di gloria in gloria, come dice l’Apostolo Paolo; non c’è soltanto il compimento della esistenza della fede, ma, in fin dei conti, c’è anche la reale presenza di Cristo nella Chiesa, nella sua istituzione, nel suo diritto, nella sua liturgia, per non citare altri elementi; non c’è soltanto una sua illustrazione passeggera nell’anima dell’uomo, mediante la lettura della Bibbia.
Ed ecco un’altra convinzione, frutto dell’esegesi neo-testamentaria. E’ una convinzione che scaturisce dai punti ora stabiliti, ma si riferisce anche ad un aspetto particolare dell’Incarnazione di Cristo vista nel suo complesso. Per non esprimermi in termini teologici, dirò: Dio si è deciso per il mondo una volta per sempre e in maniera concreta. La conseguenza di questa sua decisione è che il provvisorio del mondo – tangibile ma precario – porta un certo sigillo definitivo. Dio si è deciso in e con Gesù Cristo e si è deciso per noi. E tutto ora è in funzione della sua volontà, della sua scelta e della sua decisione. Iddio ci ha liberamente scelti nella sua volontà una volta per tutte. Questa benevolenza che ci previene, imprime il suo marchio in tutto il nostro universo. In virtù della divina decisione il tempo non è più ciò che era prima: è ormai «compiuto» e, come tale, dobbiamo e possiamo viverlo. Il tempo non è più semplice divenire. Noi non siamo più come gli Israeliti, per i quali l’ora di Dio resta una speranza che si realizzerà soltanto alla fine del tempo. Come cristiani, dobbiamo vivere il tempo cristiano la cui realtà ha inizio con la Risurrezione di Cristo.
L’avvenire è già cominciato. Non siamo nemmeno come i pagani, che sono senza avvenire, perché davanti ad essi non c’è che il niente, vuoto di senso. L’era pagana è ormai cancellata. Il calendario non è solo una convenzione arbitraria, ma è il riflesso di una reale trasformazione del tempo. Inoltre, poiché Dio ha preso la sua decisione, anche lo spazio è mutato: al pari del tempo, è riempito di Cristo: vale a dire che è da lui dominato. E’ Cristo che riempie questo spazio, che lo prende per sé, che lo compenetra. Ecco perché la Chiesa prende questo «spazio», che è il mondo, e lo accoglie nel suo seno: essa è la forma reale del tempo e dello spazio, li «incarna» nel senso attivo e passivo, li concretizza ed è il loro corpo. Ciò avviene in quanto la Chiesa è il «corpo di Cristo». E’ corpo del mondo rinnovato, portato, sollecitato, dominato da Cristo. Ora che Dio ha deciso di cambiare la struttura del mondo per mezzo di Cristo, non è più la Chiesa a costituire l’eccezione, l’estranea messa in disparte, bensì il mondo, il mondo che si sottrae alla Chiesa. La Chiesa è invece la regola, il quadro proporzionato, la patria del mondo. La Chiesa è oggi l’universo.
Tutto ciò significa anche un’altra cosa e cioè che la Chiesa è un mondo. Dio si è irrevocabilmente deciso per noi. In quanto corpo di Cristo o dimensione di Dio, essa è vero tempio, vera città, vera casa di Lui: congloba tutto ed è l’eternità tangibile di Dio. La Chiesa dunque è la prova tangibile che Dio ha optato per un mondo nuovo, il suo mondo. L’universo intero, in tutte le sue forme e strutture è destinato a fare trionfare il decreto di Dio. Perciò il Nuovo Testamento prova – e questi pochi esempi lo provano – che la fede si fissa in precise enunciazioni, la cui verità esige di essere ammessa senza equivoco. Inoltre, in conformità alla volontà di Dio e poggiando su di essa, è la Chiesa che decide sulla sua fede, e non esita a definirla nei singoli dettagli. Di fronte ad essa si trova la scelta di ognuno in particolare. Pertanto ogni discussione è chiusa e il suo risultato è fissato per sempre: la decisione eterna è già anticipata sulla terra, sotto pena di non essere nel mondo voluto da Dio. Che la Rivelazione possa prendere questo carattere chiaro e netto – non sempre e presso tutti, ma qua e là, dove e quando è necessario, – non dispensa i fedeli né il mondo dalla riflessione e dall’indagine; ma libera il mondo e i fedeli dall’illusione di poter trovare la verità per le proprie strade o di non trovarla affatto. Dio l’ha giurato, si è risoluto e di conseguenza – come lo mostra il Nuovo Testamento – la Chiesa è investita di autorità, la quale concerne l’elezione, il mandato, la missione, certe funzioni destinate ad essere trasmesse. Alcuni rappresentanti qualificati decidono in nome della Chiesa, continuando così o esplicitando il decreto di Dio. Una volta definita la questione, non c’è più luogo per il ricorso allo Spirito: non rimane che ubbidire. Gli stessi Apostoli hanno fatto uso di questo atto di autorità, così i loro successori per salvaguardare il deposito apostolico. Non è quindi affatto conforme alla Bibbia, pretendere che la Chiesa possa essere diretta soltanto da un Consiglio «fraterno». In principio, agli inizi del Nuovo Testamento e dal periodo apostolico essa viene diretta dalla «gerarchia». Ciò non toglie valore ai carismatici e agli altri membri della Chiesa, ma esclude che essi siano investiti della suprema autorità. Questo fatto riflette anche la fine dei tempi in cui noi già viviamo. Non che lo stato definitivo sia tramandato ad un prossimo futuro; anzi nascosto o velato – per esempio nelle decisioni umane – è già presente. Come lo mostra S. Paolo, il Nuovo Testamento conosce il principio e l’esercizio di uno sviluppo totale congiunto all’ascesi. Comunemente non si avverte però che anche questo servizio senza riserva (e l’ascesi) è illustrato proprio dall’apostolo Paolo in riferimento alla parusia e quindi rappresenta per sua natura un fenomeno escatologico. In effetti, di fronte a questa effettiva anticipazione del futuro che si attua giorno per giorno nel celibato dei sacerdoti e nel monachesimo, cosa valgono tanti discorsi che si fanno sull’eschaton e su tanti sentimenti escatologici reali o supposti? Si obietti pure che, nei casi particolari, c’è tanto di mediocre e di squilibrato; ma il fatto è che nel monachesimo e nel celibato c’è un modo di esistere escatologico ed essi costituiscono almeno su un punto la risposta concreta al decreto definitivo di Dio.
E ciò può bastare. Dopo tutto, l’esegesi del Nuovo Testamento non ha come scopo di farci rilevare queste verità, benché ce le suggerisca. Sono verità che si scartano, perché sovente si fa dipendere l’interpretazione da un partito preso o da un certo timore latente. E quando l’esegesi lascia scoprire la verità, ci si astiene sovente dal trarne le debite conseguenze. Quante ammissioni non fa la critica storica protestante in sede esegetica e storica, per ripudiarle poi in sede dogmatica ed ecclesiale! Le posizioni sono già scelte in antecedenza, il pregiudizio fa velo alla serenità del giudizio, e comodamente ci si appella all’arcinota ma male interpretata espressione giovannea: «Lo Spirito spira dove vuole». Ci si appella a questa parola per pretendere che lo Spirito di Dio, lo pneuma, non si lega e non è legato a proposizioni fisse, a segni, a uffici, a istituzioni, dei quali non ha bisogno; che gli farebbero perdere la sua libertà, facendolo dipendere dall’uomo. E si teme che ciò conduca a qualcosa contraria alla natura del cristianesimo. Ma nel Nuovo Testamento non si trova tale pregiudizio né tale timore. Secondo il Nuovo Testamento lo Spirito si è legato a proposizioni e a segni nel senso che esso adopera sempre questi mezzi e non altri, per apportare luce e vita agli uomini. Del resto, lo stesso Nuovo Testamento, anche considerato come semplice documento storico, lo attesta. Alcuni lo negano, ma lo sapevano bene i Riformatori. Il Nuovo Testamento conosce degli inni ben precisi, che sono ispirati dallo Spirito e lo comunicano; parla di una probazione espressa sotto l’influenza dello Spirito e destinata a dare la grazia; sa che lo Spirito, ad esempio, è legato all’acqua per operare la rinascita, ecc. Poco importa nel Nuovo Testamento che si «disponga» dello Spirito facendolo dipendere dal segno. Questa affermazione supporrebbe che, ricorrendo ai segni del pane e del vino, per esempio, lo Spirito operi la salvezza automaticamente, senza che vi sia necessaria la risposta alla sua azione con la fede e l’obbedienza. Ma sottomettendosi al segno sacro, lo Spirito ha un solo scopo: manifestare con più forza la sua venuta, la sua presenza e la sua azione salutare.
Questa unione è la prova della definitiva offerta di Dio, che va fino alla «materia» (ma in un’altra maniera). Essa non presuppone mai l’intenzione d’operare la salvezza come per via magica, benché il partito preso «antiromano» del razionalismo lo pretenda. E’ un pregiudizio diffuso presso taluni teologi protestanti, avversari dei Sacramenti, sebbene ben riformati su altre cose.
Infatti, vincolandosi liberamente all’acqua del Battesimo, lo Spirito, per esempio ha voluto semplicemente manifestare la benevola decisione di Dio. Perciò la reale efficacia della sua azione è sempre «condizionale», in quanto postula una corrispondente ubbidienza (naturalmente da precisarsi caso per caso); e di conseguenza non ha per effetto una «securitas» che sarebbe il prodotto di una certezza umana, personale, ma semplicemente la sicurezza che l’offerta di Dio è definitiva nella sua potenza preventiva, nella sua forza salutare, la convinzione che il suo decreto è irrevocabile ed esige la mia decisione. Questa bontà di Dio così largamente premurosa verso l’uomo, di quella premura che Cristo risorto, con disappunto degli altri discepoli, usò verso Tommaso, suscita riconoscenza per la benevolenza con cui Dio si piega alla nostra semplicità, ma non favorisce la «sicurezza». Anzi, la divina filantropia suscita piuttosto insicurezza, l’insicurezza cioè di colui che si vede addirittura assediato senza scampo dalla bontà di Dio, e a cui lo Spirito e la salvezza vengono incontro in una maniera così umana, direi quasi, così quotidiana che non si può nemmeno schivarla nella scusa della incomprensione. Come si può dunque parlare di «securitas»? Certamente si può anche abusare della divina benevolenza, proprio perché è così grande. E in effetti, questo abuso è frequente nella Chiesa da parte di molti fedeli.
Ma come si può giudicare di un uso dall’abuso che se ne fa? E poi, chi si erigerà a giudice?
Spesso ciò che sembra sicurezza di sé non è che il distacco di colui che ha assoluta fiducia in Dio, il quale mette a nostra disposizione, nonostante tutta la nostra miseria e pochezza, i mezzi di salvezza. La sua carità, principio e fine di tutto, ci è continuamente accanto: noi non vi corrisponderemo mai pienamente. E poi, confessiamolo sinceramente, sotto le apparenze di questa insicurezza, o meglio di questa mancanza di certezza personale, di questo «timore e tremore», di questa famosa inquietudine, di tutte queste cose con cui si pretenderebbe di dare ogni onore a Dio, dopotutto non è altro che sicurezza di sé, non è forse vero? Secondo costoro Dio non avrebbe mai preso una decisione, ma avrebbe lasciato tutto in sospeso, non solo la parola concreta (Sacra Scrittura), ma anche la risposta che dovrebbe venire dalla Scrittura, risposta che non potrà mai prendere forma precisa, né manifestarsi esternamente, perché potrebbe essere captata dalla sola fede «esistenziale» di un momento. E’ una fede che non ha alcuna «esistenza» fondamentale, perché evapora immediatamente. Tutto rimane insicuro, dunque, tranne la certezza della incertezza della Divina Rivelazione, e con ciò della mia stessa incertezza. Ma con ciò non si viene a sfociare in una assoluta sicurezza di sé? Dire che si dispone di Dio è un equivoco che nasconde e incoraggia la sicurezza personale. Molti Protestanti l’hanno chiaramente riconosciuto, come mi consta. In sostanza questa visuale si rifà alla Teologia della «tentazione» di Lutero, la quale ha la sua diretta origine in quella terribile sicurezza di sé che regnava nella pratica religiosa del tardo Medioevo e nel suo substrato teologico. So quindi che essa è legata a uno di quei pregiudizi che è estremamente difficile estirpare facendo appello alla sola ragione. Ma prescindendo da queste considerazioni psicologiche e storiche, per la teologia e per l’esegesi non v’è dubbio che secondo il Nuovo Testamento lo Spirito Santo si è liberamente vincolato ai mezzi di salute (anche alla parola!), alla Chiesa, al suo corpo, e anche alla sua istituzione, ai suoi uffici e agli investiti di questi uffici. E anche se questo vincolo ha aspetti ed effetti diversi, secondo le diversità dei casi, esso deve sempre intendersi nel suo armonico orientamento verso il fine escatologico anche nel nostro tempo storico, e in questo nostro spazio storico. Tutto ciò serve, in definitiva, la divina benevolenza. Ed è così che bisogna comprenderlo.
Un altro insegnamento ho tratto dal Nuovo Testamento e riguarda ciò che per la Chiesa romano-cattolica è sempre stato fin dall’inizio un punto fermo: e cioè che la Chiesa è prima del singolo cristiano, e non soltanto in senso cronologico ma anche in senso oggettivo. Essa è il Corpo di Cristo, – nelle sue membra e perciò è di più che la somma delle membra di questo Corpo ed è «prima» delle membra stesse. – Essa è infatti il corpo del Capo, è il corpo del secondo e «definitivo» Adamo. E come noi, in quanto uomini deriviamo da Adamo e viviamo in Adamo, così l’esprimiamo secondo una particolare immagine, anche agli occhi di tutti gli altri. Similmente noi, in quanto col Battesimo siamo divenuti membra del Corpo di Cristo, deriviamo da Cristo, siamo in lui e per lui, e così viviamo del suo corpo, per «imitarlo» qui in terra e per portarne un giorno l’«immagine». Innestati su di Lui, viviamo di Lui per mezzo del suo corpo: la Chiesa.
Ciò significa, tra l’altro, che non possiamo ricevere il dono vitale, lo Spirito, che nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Che lo Spirito faccia sentire la sua voce alla solitudine del soggettivismo – il che avviene più raramente di quanto si creda – o anche (il che avviene ancor più raramente), che Egli faccia sorgere un’anima ardente per denunciare la rilassatezza, l’equivoco o l’errore che in un dato periodo possono insinuarsi in una parte della Chiesa, è pur sempre lo Spirito della Chiesa che chiama. La riprova di ciò è che lo Spirito chiama sempre per la Chiesa, il che vuol dire che Egli chiama e attira sempre verso la Chiesa e non fuori di essa. Ciò vale soprattutto nel caso in cui qualcuno si senta chiamato a una decisa e dolorosa lotta contro disordini e peccati che affliggono vasti settori della Chiesa. Anche e proprio costui è chiamato dallo Spirito della Chiesa, che è lo Spirito di Cristo e lo Spirito Santo, non alla separazione, bensì a sottomettersi ad essa piuttosto che al disordine ed al peccato. In tal senso è sempre la Chiesa stessa a riformarsi dal di dentro e sempre nella sua direzione. A un vero riformatore della Chiesa (ammesso che, in senso così largo, ve ne possa essere uno) non rimane altra scelta, nel caso che non riesca ad imporsi, che immolarsi in testimonianza alla verità contro lo spirito della menzogna che si è impossessato di molti membri della Chiesa. Se egli lascia la Chiesa, anche solo interiormente (e questo abbandono non rimarrà solo interiore, nel momento decisivo), egli si affida di più al suo pneuma, che può essere anche giusto, che al pneuma della Chiesa, e assomiglia così ai carismatici della comunità di Corinto che del dono dello Spirito usarono contro la predicazione dell’Apostolo. Non voglio qui formulare un giudizio sulla personalità di Lutero, ma intendo confessare apertamente che la sua ardente pietà mi è sempre sembrata singolarmente cieca. Certamente la sua polemica non è soltanto «frutto dei tempi», come si sente dire spesso, è qualcosa di più che un semplice fenomeno morale. E’ il dramma di un uomo invaso dalla collera e che, non vedendo più le cose nella loro vera luce, si slancia in una lotta mortale per delle mezze verità. E nemmeno voglio qui giudicare sui motivi della Riforma. Di motivi a quel tempo ce n’erano certo a sufficienza, dato che la Chiesa era malata in un modo per noi oggi quasi incredibile, sia nel capo che nelle membra. Ma motivi per quale Riforma? Comunque sia, mai per una Riforma che portasse alla scissione della Chiesa, ferendola intimamente senza raggiungere lo scopo.
Dire che la Chiesa è prima del singolo, significa anche, per trarre un altro esempio dalla mia esperienza personale, che nell’interpretazione della Scrittura è depositaria e moderatrice la Chiesa. L’interpretazione deve avvenire nello Spirito della Chiesa ed è la Chiesa che deve giudicare della verità. Ciò non vuol dire che l’interpretazione debba assumere determinati risultati di esegesi ecclesiastica o che debba riprodurre semplicemente l’opinione di autori approvati dalla Chiesa insigni e rispettabili. E nemmeno comporta che l’esegesi odierna debba ritenere ancora validi certi metodi esegetici affermatisi un tempo e riconosciuti nella Chiesa, benché siano da tenersi in debito conto. L’esegesi è un metodo storico e perciò soggetto a variazioni, vincolato a tutti gli avvenimenti della storia, precisamente perché è vivente. Essa dunque deve mantenersi – ed esercitarsi – nel dominio vitale dello Spirito, che è lo Spirito della Scrittura e lo Spirito della Chiesa; deve lasciarsi tracciare i confini da lui. Ciò significa anche che, essendo l’esegesi una funzione della grande e continua interpretazione del mondo e dell’esistenza dopo l’avvento di Cristo, essa deve sempre collocarsi dal punto di vista cristiano d’angolo anticristiano ne fa pure parte), in conformità con la Chiesa, sotto pena di non entrare nel dominio richiesto dalla Sacra Scrittura, e perciò di rimanere fuori. Senza la Chiesa, questa esegesi non riuscirà mai a percepire il vero senso della Scrittura. Certamente, per il solo fatto che io «vivo con la Chiesa», non è detto che io interpreti in senso esatto, all’occorrenza, la Scrittura. Ma, ad ogni modo, conosco il senso che essa postula, e tenendone conto sono in anticipo preservato da ogni influsso estraneo. La concezione di un esegeta isolato, imparziale, di fronte alla Bibbia che egli apre per la prima volta, è una pura fantasticheria, un’astrazione dello Spirito. Una delle due: o egli sarà giudicato dallo Spirito della Chiesa, anche senza esserne conscio e senza volerlo; oppure egli avrà praticamente un atteggiamento d’incomprensione, se non di ostilità e si rifugerà in un mondo intellettuale storicamente tagliato fuori dalla vita e dallo Spirito della Chiesa, seguendo la sua propria evoluzione indipendente, che avrà eretta a sistema. Però può anche accadere che l’esegeta isolato trovi, nonostante tutto, la linea di pensiero che la Scrittura postula – posto che egli vi apra tutto il suo spirito, ovvero in una maniera del tutto imprevedibile –, ma in generale gli ostacoli eretti da questo mondo e da questa concezione estranea o ostile alla Chiesa sono così grandi che egli non riuscirà a comprendere le esigenze della Sacra Scrittura, e resterà al di fuori del suo campo. In questa situazione, a dire il vero, ci troviamo tutti, anche coloro che come membri della Chiesa, partecipano alla sua vita – o, per meglio dire, in fondo ci siamo trovati tutti ad un certo momento. Ed è questa ragione per cui l’esegeta deve in fine sottomettersi all’insegnamento e alle decisioni della Chiesa, come tutti gli altri fedeli. Non c’è dunque da meravigliarsi che, non dipendendo dalla Chiesa, si sollevino tanti problemi scritturistici, considerati come vere difficoltà dalla storia e l’esegesi moderna del Nuovo Testamento. Non si può ignorarlo. Tuttavia non si tratta di problemi assoluti, perché sono scaturiti «unicamente» dalla situazione d’insieme. Agli occhi della filosofia moderna che parte da una certa posizione preconcetta per interpretare la vita e le idee, la narrazione evangelica della Risurrezione di Gesù Cristo avrebbe un carattere mitologico. E’ quanto afferma un certo vecchio razionalismo, secondo gli Atti degli Apostoli. E perché? Generalmente si dice perché il miracolo della Resurrezione è inaccettabile dalla ragione umana, anzi è contrario alla morale umana. Ora, i tempi primitivi, meno critici di fronte ai miti, ammettevano talora il miracolo. Tutto ciò è falso. Il racconto scritturistico della Resurrezione non ha minimamente un carattere mitologico e non trova alcun parallelo né oggettivo né formale nella religione e nella mitologia antiche. E’ sufficiente far notare il carattere stesso del racconto: il Nuovo Testamento presenta la Resurrezione come un avvenimento storico reale, sui generis, di inaudita potenza ed efficacia. E allora, perché di fronte alla Resurrezione non c’è, almeno in via di principio, quella accettazione e quella comprensione, magari vaga, che si ammette comunemente nei riguardi della creazione? Perché la generalità degli uomini e il loro modo di pensare è ormai estraneo alia filosofia vitale che sgorga dal fatto della Resurrezione, e che invece esisteva per la fede dei primi testimoni oculari. Questa concezione è anche quella della Chiesa, la quale parte da questo momento storico per orientare l’umanità e il suo pensiero nel dominio religioso morale e intellettuale.
E così vengo a esporre gli ultimi motivi della mia conversione che sono scaturiti dallo studio del Nuovo Testamento. Con l’andare degli anni si era andata sempre più rafforzando in me la convinzione che per il Nuovo Testamento non c’è che una Chiesa, la Chiesa Una, e che la sua unità fa parte essenziale della sua natura. Bisogna intenderlo nel senso storico, come unità dei suoi fondamenti, dei suoi mezzi di santificazione, della sua fede, della sua missione, del suo diritto (che include naturalmente anche quello dei suoi membri). Prescindendo da tutto il resto, nessuno potrà contestare che già il concetto di popolo di Dio, di nuovo Israele o anche il concetto di Corpo di Cristo implicano l’unità della Chiesa, di un’unità che raggiunge anche la sfera del diritto. E’ un fatto incontestabile. Questa unità ha la sua base anche nel fatto che la Chiesa, secondo il Nuovo Testamento, altro non è che la forma concreta terreno-celeste dell’amore di Dio, che vuole abbracciare tutto per renderlo uno. Amore significa unione. L’unione è un processo interiore, senza dubbio, ma per sua natura non rimane limitato all’anima, si estrinseca e abbraccia tutti gli elementi costitutivi della Chiesa. L’unione, è vero, sarà consumata soltanto in cielo, ma, come abbiamo detto, con l’Incarnazione del Verbo e con la Risurrezione di Gesù Cristo questo avvenire ha già fatto irruzione nel mondo, precisamente per mezzo della Chiesa. L’unione si attua concretamente già adesso, da quando il corpo di Cristo sulla croce ha visibilmente in sé unito Giudei e Gentili per conciliarli con Dio, e si attua nella Chiesa che in quel corpo era nascosta e che dallo Spirito Santo è stata sviluppata. Nessuno può portare una prova biblica che la Chiesa unificatrice è soltanto quella che esiste nel cuore dei veri cristiani sparsi nel mondo. E nessuno può addurre una prova scritturistica che l’unità della Chiesa assomiglia a quella dei rami usciti dal medesimo tronco, e che ogni chiesa-ramo apporta il suo contributo a una superiore unità. E poi, non è forse vero che il paragone è già di per sé monco? Come fanno rami visibili a unirsi in un albero invisibile? Infine, nessuno può portare una prova biblica che l’unità della Chiesa ha carattere escatologico nel senso che si realizzerà soltanto alla fine dei tempi. Tutte le Chiese – proprio tutte – sono semplicemente sulla via della Chiesa una? Ma si sa che il campo sarà lavorato prima del giudizio finale, perché in quel giorno sarà semplicemente separato il frumento dalle male erbe; non è in quel giorno che saranno gettate le reti, ma allora saranno semplicemente separati i pesci putridi dai buoni. Come avrebbe potuto Gesù pregare per l’unità dei suoi discepoli, e metterli in guardia contro una disunione che ostacolerebbe la fede del mondo, se si fosse trattato solo di un’unità futura e non di un’unità presente, che anticipi immediatamente e concretamente il futuro? Del resto le chiese evangeliche della cristianità divisa sanno da tanto tempo che si tratta di una unità reale e presente. Infatti, finché queste chiese furono fedeli ai principi tradizionali, come lo è ancor’oggi la Chiesa grecoortodossa, esse pretesero di essere la vera Chiesa Una di Cristo, in opposizione alla Chiesa romano-cattolica considerata come l’Anticristo. Ma anche gli odierni sforzi ecumenici dei protestanti mostrano che la coscienza di una concreta e attuale unità è ancora viva. Molti dei loro rappresentanti più autorevoli la stimano necessaria non soltanto per ragioni di politica religiosa, ma anche in base al capitolo XVII del Vangelo di Giovanni. Senza dubbio, questo movimento conserva non soltanto nelle sue motivazioni teoriche, ma anche nella sua azione pratica, un certo sospetto verso l’unità essenziale e l’unificazione pratica, eludendo così la sua esigenza totale e fuorviandosi nel cercare la quadratura del circolo. Perciò il mondo oggi ne soffre e più ancora ne soffrirà in futuro, giacché l’unione del mondo non si avrà finché rimarrà divisa la cristianità, paralizzando così internamente ed esternamente l’azione visibile della divina semplicità che vuole unire tutto. Oggi, fra i popoli non si riesce più a stringere un trattato di pace, ma, al massimo, un semplice armistizio. E si moltiplicano i segni che dicono che se unione ci sarà, essa sarà nell’odio.
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Ho presentato, così, alcune conclusioni alle quali sono arrivato dopo molti anni, per mezzo di una esegesi del Nuovo Testamento preparata e confermata da non poca esperienza di fatto. Queste conclusioni non mi hanno permesso di rimanere al di fuori della Chiesa romano-cattolica, che è per sua natura una e l’unica, sempre più che la somma dei suoi membri e sempre prima di ogni singolo membro; nella quale e per la quale Iddio mostra al mondo la sua benevolenza deliberata, definitiva da quando il Verbo è divenuto carne. In questa Chiesa e mediante essa lo stesso Signore dispiega la sua pienezza, la pienezza della verità attraverso tutti i tempi. Pieno di condiscendenza, Egli si trasmette sempre nuovamente agli uomini per salvarli. Queste mie conclusioni, naturalmente, non sono sorte all’improvviso bell’e fatte, per costringermi a fare il passo decisivo. Ma lo studio continuato e assiduo del Nuovo Testamento mi ha fatto sempre scoprire nuovi aspetti che si imposero poco a poco sotto l’influenza di non pochi incontri provvidenziali. Così, dopo molte esitazioni, tutto mi apparve sì chiaro da poter seguire il richiamo pressante. Presa la risoluzione, iniziai il viaggio pieno di gioia, verso la terra conosciuta che si annunziava come patria. E, a Dio piacendo, lo sarà sempre maggiormente.
Che Dio benedica tutti coloro che mi hanno aiutato su questa via.
Heinrich Schlier, Breve giustificazione, Tratto da: «Testimonianza alla Chiesa Cattolica», a cura di Karl Hardt, Edizioni Paoline