Condividi:

Sentinelle in piedi: le ferite diventan feritoie

Autore:
Cupani, Gianna
Fonte:
CulturaCattolica.it
Ringrazio Dio, oggi, di esser stata qui, perché altrimenti non avrei potuto incontrare questa domanda, abbracciare questa sofferenza e farla diventare un po’ parte di me, così da guardare con occhi nuovi questi nuovi amici e rendere più vere e profonde le ragioni della mia e forse domani della “nostra” fede

Mi sto recando in Piazzetta Cavour, dove tra poco si svolgerà la prima veglia pordenonese di “Sentinelle in piedi”.
Un po’ di emozione mi chiude la bocca dello stomaco: abbiamo preparato tutto anche nei più piccoli dettagli, io e quel pugno di persone fino a ieri sconosciute, che ci siamo scoperte mosse da uno stesso desiderio, da una stessa preoccupazione, con cui nel giro di pochi giorni si è stretta un’amicizia fraterna, di quelle che nascono per grazia, quando si è mossi da un ideale grande.
La polizia ci ha rassicurato che sarà presente, dopo quello che è successo domenica scorsa in molte città italiane e che non si prevedono grosse agitazioni, ma un po’ di agitazione la percepisco in me, per la novità e l’incognita dell’evento.
Arrivo in piazza con quasi un’ora di anticipo e la prima reazione è di stupore: diversi mezzi militari sono già schierati, intorno uomini in divisa. Lo stupore sfocia in ilarità, perché mi affiora alla mente una frase di Chesterton che suona così: “Ci saranno tempi in cui dovremo sfoderare le baionette per dimostrare che due più due fa quattro…!” “Oggi abbiamo bisogno delle Forze dell’ordine per affermare che sono un uomo e una donna che fanno un figlio”, penso tra me e me!
Io e i miei nuovi compagni di cammino ci disponiamo con un po’ di impaccio: cerchiamo di assumere quella disposizione precisa nello spazio che è stata definita “quasi una liturgia”. Perché la disposizione ordinata a scacchiera vuole essere una risposta al caos, il nostro silenzio un contraltare al frastuono che ci circonda, la concentrazione nella lettura una risposta alla mancanza di approfondimento culturale che è sottesa al progetto di trasformazione della realtà cui ci opponiamo.
La realtà è però sempre un po’ diversa dall’ideale, e così anche la schiera dei miei nuovi “amici” mi appare all’inizio un po’ sgangherata, sghimbescia, anche un po’ sparuta, ma poi, mano a mano si rimpolpa di nuove presenze e acquista un ordine, un fisionomia, una bellezza, perché ognuno scopre il suo posto, diventa un riquadro “certo” della scacchiera. Li guardo con affetto e tenerezza: la loro presenza mi conforta, sento di appartenere a questo “popolo”, in gran parte sconosciuto. Mi sento accolta, sostenuta, protetta. Faccio fatica a concentrarmi sul libro, perché li guardo ad uno ad uno: ci sono persone mai incontrate o conosciute solo di vista, ma anche il vecchio amico che mi aveva detto “non so” e che ora compare come un miraggio, l’amica di sempre che è lì, in compagnia del tumore che sta combattendo, quell’altra che si sposa la settimana prossima e che ha messo questo gesto prima di chissà quante altre incombenze; c’è l’intellettuale, lo spocchiosetto, il tremebondo… oggi tutti resi uno dalla carica ideale di questo gesto.

Ad un certo punto sento cantare, forse è una canzone di De Andrè… “Che bello!” penso, alzo gli occhi e vedo che sull’altro fianco dello “schieramento” si è disposto un gruppetto di persone molto “casual” e canoro. Eccoli, sono i “contromanifestanti”; ma che belli e che simpatici! Ci aspettavamo una specie di black bloc a volto coperto e cattivi, invece questa ragazzina che canta ha una faccia così pulita. “Beh, meglio così…”, penso. Ed ecco compaiono anche gli striscioni. Faccio fatica a stare col naso sul libro, come vorrebbe la prassi, perché mi incuriosisce troppo quello che ci sta scritto: in fondo è un tentativo di comunicare con noi. Purtroppo i manifesti sono sul lato opposto e ne leggo a fatica solo qualcuno: “ Quella tra una Vergine e lo Spirito Santo vi sembra una famiglia naturale?” Dio mi perdoni, ma la trovo carina… forse nel prossimo cartellone leggerò che il concepimento di Gesù è il primo caso di “eterologa”… e invece ci invitano a considerare che la terra non è piatta, cioè ci invitano ad evolverci, beh, meno felice… Ed ancora: “Ma qual è il problema se due gay si sposano, non dovete mica fare il regalo?” Questa, nelle mani di un esponente storico e ormai attempato di Rifondazione comunista, mi sembra uno stridente cedimento al consumismo imperante… affilo gli occhi ma non riesco a leggere di più.
Mi viene vicino un gruppetto di ragazzine e, con aria sicura e un po’ aggressiva, una mi fa: “Voi siete quelli che ce l’avete su con gli omosessuali?” “No - le rispondo - non ce l’abbiamo su con nessuno, tanto meno con gli omosessuali. Noi pensiamo che quello che facciamo sia per il bene di tutti, anche degli omosessuali”.
Mi guarda stupita, interdetta, nel suo sguardo si riflettono mille sensazioni di sollievo e di stupore, come avesse scoperto l’altra faccia della luna. Le parlo della barbarie dell’utero in affitto e della donna pagata secondo un tariffario in base alla sua nazionalità, della disumanità del bambino programmato in provetta come una “cosa”. Mi dà ragione su tutto, vorrebbe continuare a parlare: scopro che frequenta la mia stessa scuola… “Se vuoi possiamo continuare il dialogo...” mi dice di sì. Ciao, Camilla, grazie, non perché mi hai dato ragione, ma per il piglio con cui mi hai affrontato, quando ancora mi ritenevi un’aliena. Quanto vorrei trasmettere ai miei alunni questa autonomia di posizione, questo coraggio, questa libertà di confronto!

Nel frattempo il nostro gruppo si fa folto e anche il loro: su entrambi i fronti arrivano ancora amici ritardatari trafelati per la ricerca di parcheggio in pieno sabato pomeriggio.
Loro cercano spazio e si insinuano in un angolo del nostro schieramento, in una sorta di sit in. C’è anche una signora un po’ matura, mi fa specie vederla seduta a terra con le gambe “all’indiana”, conosco i formicolii, oltre i verd’anni. Niente più canti, ma solo qualche slogan che si perde nel vento.
Li guardo: niente che ci distingua nell’aspetto, sì qualche piercing e qualche sfumatura di colore pastello sulla testa dei loro ragazzi, ma anche i nostri sono “variegati”. Quel fotografo con chioma fluente di che gruppo sarà? Mah! Li guardo, i nostri “antagonisti” e improvvisamente mi rendo conto che se non fosse stato per un incontro di tanti anni fa, adesso forse sarei lì con loro; forse siamo, in fondo, della stessa pasta, gente che crede in quello che fa, perché quelli che non si spendono mai per nulla, i comodi, gli opportunisti, adesso sono a bersi il tè con i pasticcini in qualche Caffè del Centro, o comodamente sdraiati davanti alla televisione, perché dopo una settimana di lavoro si è stanchi, no? Vorrei poterglielo dire che, in fondo, col loro essere qui, ci stanno dando più importanza di tanti che volutamente ci ignorano. Vorrei poterli interpellare, conoscerli, ma il gesto richiede il silenzio.

Questa commistione tra i due gruppi inquieta un po’ le Forze dell’ordine che cercano di contenere loro e stringono nei ranghi noi. Si allungano le transenne. Guardo questi poliziotti: una signora di una quarantina d’anni con la faccia stanca: penso alla fatica di tutta la settimana, alla lavatrice da caricare, ai figli lasciati soli a casa, la sento vicina; vedo un altro poliziotto un po’ avanti negli anni, sì quello del posticipo della pensione è un problema che ci accomuna tutti, ma nel caso di lavori così usuranti un occhio di riguardo non guasterebbe. Sono seri, professionali, rassicuranti, sono loro infinitamente grata, vorrei poterglielo dire…

Attorno la folla si ferma incuriosita, chiede, commenta, si fa seria o scrolla il capo, quando si risponde bisogna spiegare che lì finiscono gli uni e lì, più o meno, iniziano gli altri, ma non è semplice e più d’uno corruga la fronte perplesso; qualcuno si insinua tra i manifestanti per passare, anche qualche coppia frettolosa col passeggino. Vorrei fermarli e dirgli di no, che potrebbe essere pericoloso, che tutto potrebbe degenerare da un momento all’altro, in questo assurdo gioco delle parti, ma tant’è, nel frattempo gli ignari son già passati! Il tempo scorre lentamente e ad un certo punto colgo una sorta di scoramento da parte di qualcuno dei nostri. Mi avvicino e chiedo ragioni: la polizia ha espresso un po’ di preoccupazione, ci ha chiesto dove abbiamo parcheggiato, spera che non si abbia parcheggiato tutti vicini. Noooo! E’ molto meglio un pugno sullo stomaco che uno striscione sulla macchina!! (Il consumismo ha un certo potere anche su di noi!)
Per fortuna abbiamo parcheggiato chi di qua, chi di là o forse gli altri sono meno maliziosi del temuto… Lo sconcerto rientra, sono già le sei, la “veglia” sta per concludersi.

Mauro dice alcune parole di commiato all’altoparlante e qui boato di fischi della controparte. Perché non volete ascoltare? sta dicendo cose che vi potrebbero piacere: “NON SIAMO CONTRO NESSUNO…” Ascoltate, ascoltate, almeno, visto che vi siete rotti le scatole anche voi oggi per essere qui “contro” di noi. Ma niente, peccato.
Ve ne andrete a casa pensando che noi siamo i “reazionari-bigotti-omofobi” e noi continueremo a pensare che voi siete “i contromanifestanti-facinorosi-rompiballe” e questo farà solo il gioco di un potere che ci stritola tutti nel tritacarne dell’utile, nei giochetti ormai esangui di una politica in declino, di un sistema asservito all’unica logica dell’interesse economico, fino alla “cosificazione” dell’umano, all’anestetizzazione della coscienza.
Non ci potremo più dire che sia noi sia voi siamo venuti qui forse solo pensando ai figli, sperando, anche se in due ottiche contrapposte, ad un mondo un po’ migliore da lasciare a loro.
Tutto finisce, ci si saluta, c’è nell’aria una certa leggerezza, tutto è andato bene: buona la partecipazione, nessun incidente, ci si saluta, ma non c’è voglia di andare via. Vado sotto il naso del leader dell’altra parte, vorrei interpellarlo ma non oso, lui mi guarda un po’ provocato e mi dice: “Libertà, signora, libertà!!” e io di rimando: “Sì, è per quello che sono qui!!” Mi ri-guarda interdetto, e mi accorgo che, senza volerlo, l’ho spiazzato.

Intanto sta imbrunendo, ci si rinnova i saluti, si sciama via, mi giro e vedo Mauro e Matteo circondati da un gruppetto di ragazzi, con cui parlano animatamente. Mi avvicino. E’ un gruppetto a sé stante di ragazzi che si definiscono tutti omosessuali, sono venuti per difendere la loro posizione, stanno parlando animatamente.
Una racconta della famiglia che non accettava la sua condizione e le minacciava l’inferno, l’altra, proprio accorata, dice che le piacerebbe innamorarsi di un uomo, ma che fin dall’asilo si era innamorata della sua maestra. All’inizio ci sentivano ostili, ma adesso parlano col cuore in mano, come si parlerebbe alla mamma o al papà, se con la mamma e il papà si potessero affrontare certi argomenti. Da me viene Sara, mi spiega che lei è una persona profonda, che non devo basarmi sull’aspetto un po’ eccentrico. Ma io non avevo dubbi: da quarant’anni insegno e leggo negli occhi dei ragazzi, lei ne ha due tersi e imploranti. Mi parla della sua drammatica esperienza di omosessualità, cerca aiuto, cerca comprensione: vorrei abbracciarla, mi viene in mente la delicatezza del nostro Santo Padre che invoca “per piacere” un po’ di umana comprensione. Sento il Suo: “Chi sono io per giudicare?”; la Sua sofferenza di Pastore che fatica a porre steccati, laddove il cuore vorrebbe solo accogliere. Se continua a guardarmi ancora con quegli occhi, stavolta sarà lei a spiazzare me…
Solo la lunga esperienza di vita e di appartenenza alla Chiesa, la lunga sequela di circostanze in cui la sua maternità mi ha abbracciato e sorretto, accompagnandomi anche attraverso scelte difficili, controcorrente, ma rivelatesi col tempo sempre, sempre le più vere per la mia umanità, per la mia felicità, mi danno il coraggio di riproporle questa prospettiva come la più giusta, la più rispondente al desiderio profondo del suo cuore.
Mi guarda stupita e incuriosita. Ho con me un libretto comprato proprio oggi per la “veglia”, che affronta il tema dell’omosessualità secondo una logica antitetica a quella a lei familiare. Le chiedo se lo vuole, mi risponde subito di sì. Trovo in lei un’apertura di sguardo e di cuore che mi sorprende. Le ferite, sempre sono “feritoie” attraverso le quali può irrompere la luce.
Sento anch’io il bisogno di parlarle di me. Le racconto senza riserve della mia esperienza di maternità, di una figlia adottiva che mi è rimasta legata più di un figlio naturale e di alcuni “figli d’anima”, come li chiamo io, che si sono imbattuti sul mio cammino, “adottandomi” a loro volta. Della sorpresa e della bellezza che si scoprono nella propria vita quando non si pretende di possederla, ma la si affida ad un Altro.
Le parlo della sua specificità umana come di una “risorsa” se saprà affidarla a Chi l’ha voluta e l’ha amata da sempre. Sembra aver miracolosamente capito.
Ci abbracciamo. Ci scambiamo i numeri di telefono. Vogliamo rincontrarci.

Rimango sola, stordita e commossa dall’imprevisto di questo incontro. Il mio pensiero va alle sorelle di clausura che ho idealmente coinvolto in questo gesto… Grazie, perché mi accorgo che oggi avete pregato per me, per noi.

Cerco di trarre un bilancio dell’esperienza così vera, così inaspettata e toccante che mi è stato dato di vivere. Ripenso all’incertezza tra il partecipare o il non partecipare a questo gesto, che ha indotto alcuni miei amici e compagni di strada a rinunciare ad aderire, per paura di una contrapposizione.
Sono felice di esserci stata: la contrapposizione sta solo nella testa di chi accetta la logica delle parti, non nella sostanza della nostra umanità.
Ha ragione il Papa: la sentinella oggi è diventata inaspettatamente soprattutto un’infermiera, perché sì, la Chiesa è un ospedale da campo, in questo mondo ferito. Ma questo mondo è ferito e sanguina perché si è allontanato dalla semplice Verità che il Vangelo proclama e a cui il mondo anela.
Non possiamo ignorare la realtà, girando gli occhi da un’altra parte, né rinunciare a riproporre l’unica Verità che è Cristo vivo in mezzo a noi, che si incarna in un’amicizia, in una compagnia di cui noi siamo, al di là di tutti i nostri limiti, veicolo, e che questi ragazzi sembrano aver intuito nella nostra presenza, tanto da superare il divario dello schieramento, della fede, dell’età per aprirci il loro cuore.
Non possiamo, per paura, per un malinteso senso del rispetto umano, lasciare chi soffre in balia della logica disumana e spietata di questo mondo o, peggio, farla quasi nostra per non “turbare” la sensibilità altrui.

Diceva il filosofo Mounier che “bisognava che la Verità diventasse carne, per non cristallizzarsi in dottrina”.
Ringrazio Dio, oggi, di esser stata qui, perché altrimenti non avrei potuto incontrare questa domanda, abbracciare questa sofferenza e farla diventare un po’ parte di me, così da guardare con occhi nuovi questi nuovi amici e rendere più vere e profonde le ragioni della mia e forse domani della “nostra” fede.

Vai a "Abbiamo detto... Gli Editoriali"