Questioni di vita e di morte
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Ho appena terminato di leggere il libro di Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega “Questione di vita e di morte” che riporta nella copertina “La nostra vita ci appartiene, fine vita compreso. Abbiamo diritto a decidere noi, liberamente. Perché mai dovremmo sottometterci a un Dio, una Chiesa, un potere politico?”
Allora in “casi” come quelli di Charlie Gard, Alfie Evans e tanti altri bambini, la cui morte è decisa dai giudici in accordo con i medici, contro il parere dei genitori, dove erano i paladini dell’aut odeterminazione ? Non è che in realtà l’autodeterminazione diventa eterodeterminazione , eliminazione quindi dei più deboli e fragili? “Su se stesso sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano” questa affermazione del filosofo ed economista liberale John Stuart va insieme al grido delle femministe “L’utero è mio e lo gestisco io” segnando una alleanza tra l’individualismo materialista ed utilitarista del pensiero liberista e il materialismo collettivista dei socialisti-marxisti.
Entrambi, da due secoli alleati nella battaglia per la disgregazione della persona umana , così il dare la morte al paziente diventa da parte del medico il “prendersi cura” un vero e proprio atto terapeutico e l’aiuto al suicidio diventa “assistito” (a conferma di questo nella letteratura scientifica dedicata, si parla di MAID Medical Assistance in Dying, in Canada e di VAD Volontary Assisted Dying in Australia).
Ecco viene ribaltato con pochi inganni lessicali ed antropologici, una cultura millenaria di pietà, solidarietà, di compassione, di vera cura per il malato, che come direbbe Antigone, non ha nulla a che vedere con le leggi degli stati moderni perché queste altre sono “leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre” . Esistono da quando un essere umano decise di curare un altro essere umano.Ma la cosa che più mi ha colpito, nel libro citato, sono le ultime righe del capitolo dedicato a Lucio Magri: “E’ la protervia di sottane gerarchiche e scranni parlamentari che la (morte) rende a pagamento, la consente di fatto all’abbiente e non a chi ha meno, che rende privilegio anche vita-e-morte , vita-e-liberta’ .
Viene considerato un “bene” dare la morte, da dover garantire a tutti perché la vita e la libertà troverebbero in questo la loro massima espressione.
L’atto supremo d’amore verso se stessi e verso i propri cari viene considerato il darsi e dare la morte.
Ludwig Binswanger, psichiatra, nel famoso caso Ellen West, in accordo con il marito, procurò il veleno per il suicidio della donna, spiegò “di essere per la morte «un modo di porsi dell’essere umano, una modalità del suo essere-nel-mondo, una peculiare disposizione soggettiva nei confronti della realtà interpersonale» .”
Quindi una figlia depressa si vuole suicidare lasciatela libera di uccidersi perché quella, è “una modalità del suo essere-nel-mondo”.
Da questo punto di vista è stata drammaticamente esemplare la morte di Noa Pothoven: sappiamo che un medico la assisteva, sedandola, nei giorni in cui lei ha smesso di mangiare e bere. Un dottore che ha quindi accettato di guardare una ragazzina mentre moriva, assecondandola anziché impedirle di farlo, perché questa sarebbe stata la sua “libera scelta”.
Siamo sicuri che questa è la strada che vogliamo percorrere?
A ben vedere, quindi c’è un capovolgimento di senso radicale, perché il nodo naturale e soprannaturale del morire cade in secondo piano rispetto alla nostra libertà di decidere e di recidere il legame con la vita, si afferma una rivendicazione della nostra sovranità sulla morte.
Hannah Arendt descrive la disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno, che con il termine «rancore». Rancore contro «tutto ciò che gli è donato, compreso la sua propria esistenza»; rancore contro «il fatto che egli non è il creatore dell’universo, né di lui medesimo». Spinto da questo rancore fondamentale «a non vedere né senso né ragione nel mondo tal quale esso si dona a noi» l’uomo moderno «proclama apertamente che tutto è permesso ed egli crede segretamente che tutto è possibile», ancora spiega che la realtà «non sia una proiezione del pensiero, ma una datità irriducibile». e che «la realtà e la ragione umana hanno sciolto l’alleanza».
Che genere di concezione della vita umana è presupposta in questo tipo di legittimazione suprema della volontà individuale? Ma è possibile che l’umanità e la dignità della persona, e persino l’amore, si siano rifugiati nell’eutanasia? Leggo ogni giorno dichiarazioni e articoli pieni di umanità e d’amore dedicati a persone che decidono di morire o aiutano a morire.
Non leggo mai elogi a chi decide di vivere nonostante le condizioni difficili, a chi convive con una grave disabilità, solo elogi e comprensione a chi decide per la morte, anzi il dott. Mario Melazzini, ammalato di SLA, in un video disponibile su youtube dice: “C’è un fatto, ormai abbastanza radicato: parlare di malattia, di disabilità, fragilità parlandone come valore positivo crea un disagio come se questo non appartenesse più alla nostra società. Con la malattia o con la disabilità si può vivere. Chiaramente bisogna essere supportati, bisogna non essere soli, bisogna essere sostenuti, la dignità della vita è un carattere ontologico di qualsiasi vita e non dipende da nessuna condizione”.
Di reale c’è solo la libertà, e quindi una persona è tale perché si autodetermina in scelte volute e tutto il resto, esistenza inclusa, viene subordinata a questo unico principio.
Forse per prima cosa, come dice il dott. Carlo Bellieni, l’uomo ha una fobia seria di perdere il controllo su ogni minimo aspetto della vita. E’ un’ansia sociale diffusa, quella che Gunther Anders chiamava “invidia prometeica ”, l’idea di essere padroni della propria vita e quindi della propria morte.
La libertà dell’uomo deve concretizzarsi dentro la vita e non al di sopra di essa, la libertà dell’uomo non può essere completamente staccata dalla sua felicità, dalla sua soddisfazione totale.
Dice il Card. Carlo Caffarra: “Inizio-fine della vita sono i due momenti in cui la libertà della persona è sfidata a compiere il suo atto, la sua scelta decisiva: la scelta di fronte a Dio. Questi due momenti sono abitati dal mistero, sono luoghi sacri dentro questo mondo, nei quali è Dio stesso che si rende presente.
Stanislaw Grygiel, filosofo polacco amico fraterno di san Giovanni Paolo II, in apertura della sua recente conferenza sulla libertà, afferma: “Il rapporto con la Trascendenza è irrinunciabile quando si parla di libertà fuori dalla sua riduzione odierna al libero arbitrio. Non basta avere di che vivere per poter essere se stessi. Per poter essere qualcuno nel quale si rivelano la dignità e la libertà, bisogna avere di che morire. Avendo di che morire, l’uomo sa per che cosa egli vive. Solo allora sa che la sua vita ha senso, poiché sa che cosa sia colui che egli deve essere domani… La dimenticanza della Trascendenza, lo chiama a camminare come si cammina verso la famigliare casa abbandonata, lo rende un senzatetto e lo fa andare ramingo per luoghi impervi in dipendenza da cose fuggevoli, con le quali non vale la pena identificarsi. È solo la Trascendenza a donare se stessa all’uomo. Essa vuole essere suo Futuro. Chiamandolo a se stessa, gli traccia la strada verso la libertà da tutto ciò che passa.”
Mancano cure palliative, terapie del dolore, sostegno ai pazienti a domicilio, assistenza ai disabili gravi, diritti per i caregiver familiari, fondi per le prestazioni minime ai malati cronici... ma la Corte Costituzionale ha in mente un altro paese e pensa che il problema da risolvere oggi sia invece come concedere il diritto a farsi uccidere… si può morire a comando si può chiedere allo stato il diritto di morire… e la chiamano libertà.
Credo quindi che compito di un medico, di un ospedale, della legge e dell’autorità, della società e delle sue agenzie civili e religiose, sia quello di essere dalla parte della vita, riaffermando la nostra millenaria cultura di solidarietà e carità, che hanno fondato nel medioevo gli ospedali.
“La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. E’ richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno.” (Evangelium Vitae 67). E’ questo profondo rapporto di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova di cui il malato terminale necessita. Essa è il concreto modo in cui esperimenta un’appartenenza più profonda: quella ad un Mistero di Amore che è la spiegazione ultima di tutto ciò che accade, anche della morte. ” (Card. Caffarra, LA DIGNITÀ DEL MORIRE, Intervento al Seminario di studio 6 giugno 1998)