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Pasqua: l’avvenire di un nuovo sapiens

Fonte:
CulturaCattolica.it ©
«Dopo che l’uomo delle origini ebbe scoperto che dipendeva dalle sue mani migliorare la propria sorte sulla terra col lavoro, non poté più essergli indifferente se un altro lavorasse con lui o contro di lui. L’altro acquistò il valore di un compagno di lavoro, con cui era utile vivere insieme.»

Domenica scorsa, sfogliando La lettura del Corriere della Sera, mi sono imbattuto in un lungo articolo dal titolo inquietante, L’umanità è una malattia. L’autore, Roberto Saviano (l’autore di Gomorra) commenta un libro dal curioso titolo, L’ultimo messia, opera di un filosofo norvegese sconosciuto ai più, Peter Wessel Zapffe (1899-1990). La tesi di Zapffe, in breve, è la seguente: «l’’uomo è un animale inadatto alla vita naturale, la sua coscienza sviluppata lo rende, al contrario di quanto crediamo, un essere irrimediabilmente violento (…) Il Sapiens è oggettivamente un errore evolutivo». Contrariamente all’equilibrio ecologico, l’uomo è portato «a devastare il pianeta. Zapffe è un ecologista radicale: o la Terra sopravvive senza l’umanità, o l’umanità la distruggerà. (…) L’essere umano è un parassita autodistruttivo dal momento che non solo distrugge se stesso ma anche il mondo che lo circonda.». Ergo: «L’unica cosa che possiamo ragionevolmente fare è smettere di riprodurci e lasciare che il pianeta si riprenda da solo».
Seguono citazioni dotte, da Marx a Schopenhauer a Cioran e Mainländer, quest’ultimo maestro di Nietzsche, il cui punto di convergenza è la proposta del suicidio. Tuttavia, il filosofo norvegese corregge il tiro, consapevole che tale soluzione estrema resterebbe inascoltata dai più. Ed ecco che egli ne tratteggia, diciamo così, una variante, l’ultimo messia, ovvero un essere umano portatore di «una salvezza e una risposta. Conoscete voi stessi, siate sterili e che ci sia pace sulla Terra dopo il vostro passaggio.» Zapffe avrebbe anche dichiarato: «secondo la mia concezione della vita, ho scelto di non portare al mondo figli» (Wikipedia).
Amen, verrebbe da dire, parafrasando la formula con cui si chiude ogni preghiera e rito cattolico.

Mentre scrivo è la notte tra il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua. Raccolgo le idee intorno all’articolo di Saviano, la cui la proposta nichilista sembra essersi realizzata. Almeno nelle civiltà occidentali, sembra che l’umanità sia già alla soglia della sterilità: per una congerie di fattori, che non passo in rassegna, non si fanno più bambini. Il mese scorso sono stato invitato a San Marino da don Gabriele Mangiarotti, in occasione di un interessante dibattito pubblico sul tema del calo demografico https://www.culturacattolica.it/attualit%C3%A0/in-rilievo/ultime-news/2025/03/28/ma-un-figlio-%C3%A8-veramente-un-dono

Non solo: curiosamente, il giorno precedente la lettura di questo articolo, sabato 12 aprile, ho seguito un’ottima lezione del professor Luca Flabbi, docente di economia negli USA, dal titolo intrigante: «Un homo di successo: sapiens, o chi giudica».
Servendosi dell’opera dello storico israeliano Y. N. Harari, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità (titolo originale: Sapiens: A Brief History of Humankind, 2011), Flabbi ha saputo riassumere, per un pubblico di non esperti in economics, i passi salienti della rivoluzione operata circa 70.000 anni fa dall’Homo Sapiens, rivoluzione che ha permesso (cito Flabbi): 1) una comunicazione più sofisticata tra individui, attraverso un linguaggio che gli ha permesso di immaginare cose mai viste o toccate; 2) la formazione di gruppi di lavoro non di qualche dozzina di individui (come altri Homo), ma di qualche centinaio o migliaia di individui; 3) il commercio e lo scambio con altri.
Flabbi ha poi ricordato un passaggio del saggio freudiano Il disagio della civiltà (1929): «Dopo che l’uomo delle origini ebbe scoperto che dipendeva dalle sue mani migliorare la propria sorte sulla terra col lavoro, non poté più essergli indifferente se un altro lavorasse con lui o contro di lui. L’altro acquistò il valore di un compagno di lavoro, con cui era utile vivere insieme.» (OSF vol. X, pag. 589).
Flabbi ha terminato precisando che «la rivoluzione inaugurata da Homo Sapiens non è tanto cognitiva, quanto giuridica, poiché egli ha deciso di lavorare per la soddisfazione, raggiungibile solo per mezzo del lavoro di un altro». Un tale Homo è stato presentato dunque come un successo nella storia dell’umanità.

Una recente conversazione
con la collega Gabriella Pediconi mi ha fatto riandare alla pagina che l’evangelista Luca dedica alla via crucis, quando Gesù «vedendo una grande moltitudine di gente e di donne che si battevano il petto e si lamentavano su di lui, si voltò verso di esse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché ecco, verranno dei giorni in cui si dirà: Beate le sterili e quelle che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato! allora si metteranno a dire alle montagne: Cadete sopra di noi! e alle colline: Ricopriteci! Perché se tali cose vengono fatte al legno verde, che avverrà del legno secco?» (Luca, 23; 28-31)
Posso sbagliare, ma non ricordo di aver mai udito un commento di queste righe amarissime e sconcertanti! A me piace accostarle al passo del vangelo di Giovanni in cui Maria Maddalena, ancora in lacrime accanto al sepolcro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensando che a rivolgerle la parola sia… l’ortolano! La dinamica di quell’incontro è interessantissima.

Certo, l’essenziale della proposta cristiana (c’è stato chi, coraggiosamente, l’ha chiamata pretesa) è imperniata sul desiderio del centuplo quaggiù. Secondo Giacomo Contri, mio maestro in psicoanalisi, «Freud è stato l’unico pensatore dell’uomo come soddisfacibile, e dunque della condizione umana come desiderabile.» E ancora: «C’è poi l’altra idea dell’uomo, quella che lo vuole insoddisfacibile: tale idea è quella definita da J. Lacan come isterica, ed ecco perché la Psichiatria e con essa la Psicologia ha voluto che scomparisse la menzione stessa dell’isteria, e insieme quella della nevrosi, ossia affinché scomparisse anche solo l’idea di un’alternativa: la sola menzione della nevrosi equivale alla non escludibilità della guarigione.
La Pasqua, anzi il dopo-Pasqua, c’entra per via di quel pensatore [Gesù Cristo] – di cui in prima istanza non mi interessa la storicità ma solo la logicità o la razionalità – che nel suo pensiero si è installato, a proposito della morte, non nella banalità della possanza miracolosa della resurrezione, bensì nell’asserzione del desiderare in proprio l’umanità (ho così appena fatto la distinzione tra resurrezione e ascensione con primato della seconda): in ciò resto un cristiano impenitente, non diviso tra fede e ragione semplicemente perché penso che l’irreligioso Gesù aveva ragione.
La pecca anticristiana dei cristiani è che non darebbero un soldo per la vita umana, e se parlano di “salvezza” è perché ritengono che sia la vita umana come tale che dev’essere salvata, e non che sia salvezza essa stessa come tale: invece, proprio questo è il pensiero di Cristo, che non desidera altro che salvare la pelle, salvarsi nella e grazie alla pelle d’uomo restando tale (motricità-sensibilità-pensiero): proprio quella pelle che Freud considerava come il principale organo erogeno.»
(Think!, 7-8 aprile (Pasqua) 2012: https://www.giacomocontri.it/2012/04/a-dopo-pasqua/)
Come parlare ancora di resurrezione senza ridurla alla sua versione ecologista per cui, si sa, dopo l’inverno viene la primavera e, di stagione in stagione, non c’è che da prepararsi alla morte? Dove trovare e toccare con mano qualcosa di nuovo, e dove ascoltare un pensiero nuovo e desiderabile? La Chiesa cattolica ha portato nei secoli questo appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Espressione, questa, che da non pochi anni fa discutere.

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