NATALE, APPUNTO
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Una pagina del Corriere della sera di sabato scorso invitava i lettori a visitare i presepi più belli del capoluogo lombardo. Un box esordiva così: «In questo nostro Natale votato al consumo la presenza del presepe, dunque della Nascita che ha dato origine alla festività, è da cercare col lanternino.» [corsivo mio] [1] L’abbrivio del trafiletto mi ha ricordato la cosiddetta regola delle cinque W del giornalismo anglosassone: Who? What? When? Where? Why?
Ovvero: quella nascita non è un mito ma un fatto, che nel tempo ha… fatto notizia. Ecco una sottolineatura divisiva, come si direbbe oggi. Aggiungo una riflessione… provo a condividere con i lettori una riflessione sul Natale. Ed è proprio di questo condividere che voglio scrivere.
«Con Gesù Cristo, il Dio vivente è entrato nella storia per condividere il bisogno dell’uomo». Riassumo così quel che udii ascoltando don Giussani nel 1970 (cioè, in un certo senso, ieri). A me quindicenne quella parola, condividere, non diceva nulla, né era ancora entrata nel lessico della predicazione, come invece sarebbe avvenuto di lì a poco.
In seguito, ad esempio nel libro-intervista curato da Robi Ronza, don Giussani si diffonde sul suo modo di concepire e realizzare la carità: «Carità significa riconoscere la profonda unità che c’è fra la propria persona e la persona degli altri cristiani (…) la tensione a realizzare unità con tutti gli altri uomini in cui ci si imbatte lungo il proprio cammino. Tale riconoscimento, secondo quanto diceva San Paolo (“Portate gli uni i pesi degli altri”), deve tradursi in una condivisione appassionata, e quindi in un’assunzione del bisogno dell’altro. Negli anni di GS avevamo avviato apposite iniziative (a Milano, la presenza domenicale nei paesi e nelle cascine della Bassa) il cui scopo era quello di educare alla gratuità suprema. Si trattava di puri gesti di condivisione del bisogno e della fatica altrui.» [2] [corsivi miei]
«Il concetto di condivisione, oggi come un tempo (…) lega colui che vuol soccorrere alla vita di chi ha bisogno di esser soccorso.» [3]
Ora mi sposto a molti anni dopo: nel 2007 uscì il film Into the Wild, e l’anno seguente il libro pressoché omonimo. Come molti ricorderanno, film e libro narrano la vicenda di Christopher McCandless, il giovane statunitense che fece perdere le sue tracce per vagare in totale solitudine alla volta dell’Alaska e là morire di fame nel 1992. Accanto al cadavere, fu trovato il suo ultimo appunto: «La felicità è reale solo se è condivisa». McCandless aveva preso la frase dal Dottor Zivago, l’ultima sua lettura, come a dire: nessuno di voi mi ha capito; perciò, me ne vado per farvi sentire in colpa, a costo di lasciarci le penne. [4]
Ancora un salto, e siamo ai nostri giorni. Penso al car-sharing, che ha sostituito l’autostop di una volta, e alla moda straripante di mettersi in mostra postando ininterrottamente sui social foto, selfie e filmati, talvolta di nessun interesse e di qualità infima. Insomma, oggi condividiamo per i motivi più diversi, ma quel che viene condiviso è qualcosa che noi abbiamo mentre gli altri non l’hanno.
È dunque evidente che condividere non ha il medesimo significato in tutti questi casi. In realtà, entrambe le accezioni del verbo sono corrette: condividere significa sia «spartire insieme con altri, far parte ad altri di un patrimonio, un’eredità, una somma di denaro, etc.», come pure «avere in comune con altri, accettare, approvare, aderire (con riferimento a idee, opinioni, teoria, sofferenze, dolori).» [5] Non solo: in questa breve ricerca mi sono imbattuto in una delle frasi più celebri di Cesare Pavese, che egli lasciò scritta su un foglio tra le pagine dei Dialoghi con Leucò, poco prima di togliersi la vita: «La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.»
La distinzione tra le due accezioni di condividere aiuta a farsi un’idea di quel che accade in ogni relazione allorché un soggetto, nella sua ricerca della soddisfazione, avvicina ed implica nel proprio moto un altro soggetto. In un caso, egli offre o dona un bene, qualunque esso sia, a qualcuno che non l’ha (ora sorvolo sul rischio dell’oblatività, generosità sempre uguale a sé stessa). Nell’altro caso, il soggetto potrà prendere o apprendere qualcosa che inizialmente è posseduto solo dall’altro.
Chi ha dimestichezza con i termini freudiani può pensare alla pulsione e ai suoi quattro articoli: spinta, fonte, oggetto, meta. In essa i due posti, soggetto e altro, sono interscambiabili e i loro apporti distinti: nessuna reciprocità.
È interessante che don Giussani si sia servito della parola condividere per comunicare il contenuto della Rivelazione cristiana, aggiungendo così questa parola ad altre dalla lunga storia, quali salvare e redimere. Ed è interessante che abbia usato il medesimo termine per proporre la sua iniziativa di educazione alla carità (la parola lanciata in quegli anni era caritativa). In essa, condividere il bisogno dell’altro si rivelava, per chi vi aderiva, la via per ricevere a propria volta qualcosa che andasse aldilà della mera riconoscenza. Mettere a disposizione gratis il proprio tempo era disporsi ad un appuntamento il cui scopo era il rapporto possibile con persone che non si sarebbero mai conosciute altrimenti, perché incontrate in un quartiere periferico, o in un collegio per bambini poveri (come avvenne a Pesaro), in carcere o in ospedale… conoscevi storie e situazioni di vita che non avresti mai immaginato prima. È questo, credo, il passaggio che non riuscì a Pavese.
Resta una questione, ovvero come possa l’uomo essere massimamente bisognoso e allo stesso tempo creato «ad immagine e somiglianza» di Dio. Tema immenso: meglio fermarsi qui.
Mi piace concludere servendomi di un passo di Giacomo Contri che, in una pagina di tenore agostiniano attribuisce a Dio un desiderio: «Egli non vede l’ora che pure prevede (…) di avere a che fare con gente, cioè con soggetti individuali capaci di moto, di muoversi liberamente sapendo quello che fanno, volendolo e avendone voglia (finalmente sinonimi). Gente che Egli non debba eternamente continuare a prendere per mano: ossia l’ora di una Città matura, ‘aldilà’.» [6]
Natale, appunto: la celebrazione di un anniversario, di un compleanno. È la notizia di un fatto, come dicevo, e non di un mito. Il mio augurio è quello di saper distinguere tra i due, con stima per entrambi.
NOTE
1) C. Vanzetto, Lo spirito delle feste nelle Natività più belle di Milano, Corriere della sera, 21 dicembre 2024, p. 13.
2) L. Giussani, Il movimento di Comunione e Liberazione. Conversazioni con Robi Ronza, Jaca Book, 1986, p.. 87.
3) Ivi, pag 88
4) Nel romanzo di B. Pasternak leggiamo: «Una vita simile alla vita di coloro che ci circondano, fondendosi con essa senza un’increspatura, è la vera vita, e una felicità non condivisa non è felicità.»
5) S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino.
6) G.B. Contri, Il pensiero di natura. Dalla psicoanalisi al pensiero giuridico, 3^ edizione, Sic Edizioni, 2006, p. 285.
E l'immagine, con la motivazione di Glauco:
«Quanto all’immagine che potrebbe accompagnarlo, lascio a voi.
Mi è stata segnalata l’ultima opera di Banksy, che certo non lascia indifferenti.
Giussani diceva di non riuscire a mangiare dopo avere sentito la notizia di quanti morivano di fame in India…»
I personaggi