Italo Calvino, partendo da un ricordo
Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de las Vegas, a Cuba, da genitori italiani. Muore il 19 settembre 1985 all’ospedale Santa Maria della Scala di Siena.All’interno di quelle due date, una carriera artistica di grande valore e successo.
E quest’anno, ricorrendo i 50 anni dalla morte, sarà l’occasione di riprendere la sua figura, le sue opere, il suo cammino umano e culturale. Attendiamo dagli esperti contributi di valore.
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Un suo pensiero mi ha accompagnato in questi anni, e ho avuto l’occasione di ricordarlo per il sito CulturaCattolica.it che da tempo dirigo. Un pensiero che sembra essere un vero programma di vita, in questi tempi drammatici: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)
«Omne Verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est», come ricorda s. Tommaso d’Aquino, riportando un pensiero attribuito erroneamente a s. Ambrogio. E penso proprio che questa citazione di Calvino sia parte di quel vero che, da chiunque professato, rimanda al mistero che ha fatto tutte le cose.
Ricordo però Calvino per un’altra ragione. In Italia il dibattito in occasione prima della introduzione della legge sull’aborto e poi sul Referendum abrogativo proposto dal Movimento per la vita è stato acceso e ha mobilitato personaggi dei vari schieramenti, nel tentativo di fare prevalere la propria posizione, a favore o contro.
Non era un dibattito sui social, stampa, radio e televisione erano il campo di battaglia. Tra le varie posizioni, a quel tempo mi aveva molto colpito proprio quello che aveva scritto sul Corriere della Sera Italo Calvino, riassumibile così: il valore della vita umana dipende dalla accettazione della società. Dunque se la madre non riconosce il figlio, ha il diritto di sopprimerlo.
Ma qui le sue parole sul Corriere: «Due cose soprattutto mi dispiacciono negli articoli degli avversari d’una nuova legislazione per i casi d’interruzione della gravidanza. La prima è un’idea della “vita” e della “natura umana” come qualcosa che ha un senso e un valore per sé, indipendentemente da ciò che fanno gli altri per renderla veramente “vita” e veramente “umana”. Si dimentica facilmente che non si è esseri umani per diritto naturale; lo si diventa, bene o male, perché altri esseri umani vogliono aiutarci a diventare tali».
E continua: «Esso sarà “umano” solo in quanto attraverso il sorriso, la parola, le relazioni affettive, l’aiuto, l’apprendimento, il gioco, l’autorità, il lavoro d’altri esseri umani entra a far parte di quella collettività fuori dalla quale l’individuo della specie “homo sapiens” non è altro che un animale sbigottito e frenetico, disadatto a qualsiasi ambiente».
Per queste ragioni, conclude: «credo che mettere al mondo un figlio abbia un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai genitori». [Citazione tratta dal Sussidiario]
Ho avuto modo di approfondire questo suo pensiero quando, a San Marino (in cui vivo da diversi anni) ho affrontato la questione legata al Referendum sull’aborto, che ha dato ragione ai sostenitori dell’aborto come diritto, realizzando una legge (tra le peggiori nel mondo) in cui tra le altre cose si introduce l’Educazione sessuale di Stato e si escludono per legge coloro che sono obiettori dalla partecipazione al Consultorio pubblico (e questo senza che nessuno abbia protestato per l’evidente discriminazione tra i lavoratori).
Mi aveva colpito, ricercando le parole di Calvino che già al tempo del Referendum in Italia ritenevo errate, il fatto che tutti i riferimenti sui social al suo pensiero richiamavano il suo contrasto con Claudio Magris, senza che di quello scritto sul Corriere della Sera se ne potesse avere il testo, era scomparso letteralmente dai social, tranne che per una pagina illeggibile tratta dal Corriere della Sera.
Lo trovai finalmente in una raccolta di scritti di Magris fornitami dalla cortesia di un impiegato della Biblioteca Civica Gambalunga di Rimini, testo che ho poi potuto acquistare. Leggendo quel testo «Gli sbagliati» mi sono reso conto della ragionevolezza del pensiero di Magris in difesa della vita, di ogni vita. Poi, ho potuto leggere la lettera di Calvino in risposta a Magris, che si concludeva in questo modo: «Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia.
Parigi 3/8 febbraio 1975».
Una amicizia troncata (anche se poi ricucita) per il dissenso su questioni così essenziali.
Ma forse vale la pena di capire quello che Calvino scriveva a Magris, per cogliere la portata e il significato della sua posizione: «Caro Magris,
con grande dispiacere leggo il tuo articolo Gli sbagliati. Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo.
Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d’un allevamento «in batteria» nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico.
Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l’aborto a un’idea d’edonismo o di vita allegra. L’aborto è «una» cosa spaventosa… Il tuo vitalismo dell’«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite».
Mi è sembrata una risposta durissima, forse anche brutale, con quelle parole che sembrano non dare spazio ad alcun sentimento d’amore: «l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d’un allevamento «in batteria» nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico».
Credo allora che alcune delle parole di Magris abbiano, queste sì, il drammatico sapore della profezia: «Un premio Nobel per la medicina ha paragonato l’interruzione della maternità alla distruzione dell’abbozzo di un edificio rispetto a quella di un edificio completo, scordando che l’uomo è qualitativamente diverso da un progetto architettonico, sia esso Santa Maria del Fiore, le rovine di Cnosso o il palazzo della Rinascente. L’indifferenza appare paurosamente estensibile a piacere; stiamo forse avvicinandoci a poco a poco a un grande massacro, al momento in cui nemmeno l’attuale iniqua distribuzione dei mezzi di sostentamento potrà garantire l’attuale ingiusto equilibrio: la «selezione naturale», ovvero il dominio dei più forti, assumerà l’aspetto diretto del massacro e la nostra coscienza sarà pronta ad allargare il novero degli «individui sbagliati», a stabilire chi sia sbagliato e rispetto a chi, quale sia il quoziente di capacità affettiva e intellettiva necessario per riconoscere agli altri la dignità umana, chi sia irrecuperabile, a chi sia lecito disconoscere ogni scintilla di personalità… Analoga è la concezione regressiva, così spesso affermata, secondo la quale la legge dovrebbe comunque adeguarsi al costume, rispecchiare e sanzionare i fatti. Se così fosse, le leggi razziste dell’Alabama sarebbero giuste perché si adeguano al costume razzista imperante, e lo stesso varrebbe per le leggi di Norimberga, che s’adeguavano al diffuso antisemitismo, o per le attenuanti concesse al delitto d’onore, che riflettevano un costume comune. La legge democratica, rivoluzionaria deve incidere sul costume, tendere a correggerlo e a modificarlo; ha giustamente abolito le attenuanti concesse al delitto d’onore, e non già per infierire su un disgraziato coatto dal suo ambiente, bensì per non rafforzare quel costume e quella coazione. La «non scritta legge degli dei», per la quale si batte Antigone contro il tiranno della città, è la legge di ciò che deve essere, non di ciò che è; la tensione alla libertà, non la codificazione della schiavitù.»
A ciascuno la responsabilità delle proprie posizioni, della cultura e dei valori espressi, certamente, in questa esperienza umana così misteriosa e a volte contraddittoria, come ricorda Thomas Mann nel suo romanzo Giuseppe e i suoi fratelli: «Profondo è il pozzo del passato, non dovremmo dirlo insondabile? Insondabile, e forse allora più che mai quando si parla del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda ma oltre natura misera e dolorosa. È ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema. Perché appunto in questo caso avviene che quanto più si scavi nel sotterraneo mondo del passato, […] tanto più i primordi dell’umano, della sua storia, della sua civiltà, si rivelano del tutto insondabili e, pur facendo discendere a profondità favolose lo scandaglio, via via e sempre più retrocedendo verso abissi senza fondo. Giustamente abbiamo usato l’espressione “via via” e “sempre più”, perché l’insondabile si diverte a farsi gioco della nostra passione indagatrice, le offre mete e punti d’arrivo illusori, dietro cui, appena raggiunti, si aprono nuove vie del passato, come succede a chi, camminando lungo le rive del mare [del Nord], non trova mai termine al suo cammino, perché dietro ogni sabbiosa quinta di dune a cui voleva giungere, altre ampie distese lo attraggono più avanti, verso altre dune.»
Forse sarebbe stato meglio «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ma se pure la storia non si fa con i se e con i ma, rimane vero che si può, ora, dare spazio a tutto ciò che apre alla vita e alla comprensione. E forse riprendere il «cammino interrotto» della Giornata di uno scrutatore ci farà sentire compagni di cammino, pur sempre sofferenti e a volte, troppe, incoerenti.