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Internet: censura o responsabilità?

Fonte:
CulturaCattolica.it

Sono recentemente stato ad un incontro (tra i tanti a cui sono invitato) a parlare del mondo della comunicazione e di internet, dal punto di vista della educazione dei giovani. Come sempre la serata è stata interessante, il dibattito e il confronto seri e costruttivi.
Ad un certo punto mi è stata posta la domanda sulla questione della condanna dei responsabili di Google, comminata dal Tribunale di Milano, a proposito della pubblicazione del video delle violenze al bambino down. «Che fare? Sei d’accordo con la condanna?», mi è stato chiesto [1].
Certo il problema non è di facile soluzione, perché da un lato vi è la questione della responsabilità di chi tiene aperto un sito, o offre un portale per la comunicazione (e questo è comunque fonte di grandi interessi economici, basta proprio pensare alla ricchezza di Google) ma dall’altro c’è il grave problema della libertà di espressione.
Ho cercato di esporre queste considerazioni: da un lato è giusto che chi offre un servizio, sia anche preoccupato della modalità del suo esercizio; dall’altro è vero che non è possibile controllare tutto, e che chi sbaglia deve pagare (e chi sbaglia è chi offre informazioni lesive della verità della persona e della sua dignità, in questo caso, non chi offre una piattaforma per comunicare); poi ritengo che il problema sia una seria educazione dei giovani (così che non capiti che si chieda alle strutture di fare quel cammino educativo che devono fare le persone e le famiglie – basta pensare alle edicole che aprono di notte e, apriti cielo!, sono una raccolta della più schifosa pornografia. Ma non si risolve il problema solo chiedendo di chiuderle…); infine ritengo che ogni forma di censura sia un danno perché penalizzerebbe non chi comunica il male, ma i pochi che, per varie ragioni, cercano di dire qualche cosa che sia, magari controcorrente, ma uno stimolo alla riflessione. (E so per esperienza quello che dico: in un mondo della informazione in cui Beppino Englaro poteva – e può – dire quello che vuole sulla vita e sulla morte, chi definisce come «omicidio legalizzato» il fatto di avere tolto l’alimentazione e l’idratazione a una giovane, facendola così morire, si trova con un bell’avviso di garanzia per diffamazione. E così parleranno soltanto quelli che sono «politically correct», secondo l’accezione di «correttezza in vigore in quel momento).
Per ogni uomo di buona volontà (credo che sia ancora una bella definizione per indicare chi cerca il bene e si sente responsabile del bene comune) credo che il problema sia quello di lavorare perché in ogni campo (nella informazione, nella scuola, nei luoghi della vita civile, e poi anche nella politica…) si dia testimonianza, senza fanatismi, ed anche senza paura del confronto serrato, della verità in cui si crede. Non c’è da temere di fronte a uomini così. E la Chiesa, al di là degli stereotipi oramai – speriamo – superati, può dare una buona collaborazione. Per evitare quegli eccessi di cui i cosiddetti «liberi pensatori» danno spesso testimonianza, come rende noto questo articolo de “Il Foglio” [2] .

Note


[1] Perché sono necessarie delle regole per la rete (di Luca M. Possati)
Il ragazzo è picchiato e deriso dai compagni di classe: piccole schermaglie, qualche spintone, insulti. Cronico bullismo scolastico, si dirà, se non fosse per due particolari niente affatto marginali. Primo: quello preso di mira è un disabile. Secondo: un altro ragazzo sta riprendendo la scena con il telefonino. Il video, girato a Torino nel maggio 2006, è caricato su Youtube e diventa un “successo” (5.500 contatti) fino a quando non viene rimosso. Tre anni più tardi il Tribunale di Milano decide di condannare tre manager europei di Google, la società proprietaria di Youtube, per la pubblicazione del contenuto.
In attesa di conoscerne le motivazioni, che verranno rese note tra qualche mese, nella sentenza di Milano c’è già una novità sostanziale: per la prima volta in un Paese occidentale è stato stabilito che un motore di ricerca su internet e i suoi dirigenti possono essere ritenuti legalmente responsabili per il materiale messo in rete - sul motore stesso o su siti collegati - da parte di terzi, cioè di utenti che hanno libero accesso alla struttura. La decisione ha acceso il dibattito pubblico e scatenato le reazioni del mondo politico internazionale. Alcuni commentatori hanno attaccato la sentenza in quanto lesiva della libertà del web, altri hanno invece applaudito la decisione sottolineando la necessità di fissare paletti normativi per un settore così nuovo. Tra i due estremi si colloca la questione decisiva: come preservare quella creatività e quella libertà di azione che caratterizzano la rete, rendendola tanto affascinante e densa di opportunità d’ogni tipo, e assicurare al contempo un controllo sui contenuti? La sentenza di Milano va nella giusta direzione: servono regole; i motori di ricerca e i provider hanno responsabilità penali. Ma il problema è quali regole introdurre per bilanciare diritti e doveri, e chi debba stabilirle e farle rispettare. Questioni non facili, ma forse è il momento di aprire una discussione globale e di creare nuovi strumenti, come un Internet Bill of Rights. Fenomeni come quello del video incriminato non sono isolati: giorni fa su Facebook è stato chiuso un gruppo contro i disabili. Come nel caso dello scontro con la Cina o di quello con la Thailandia, Google è stato nuovamente difeso con forza dall’Amministrazione statunitense. “Siamo negativamente colpiti dalla decisione”, ha dichiarato in una nota l’ambasciatore americano in Italia, David Thorne. “Il segretario di Stato, Hillary Clinton, lo scorso 21 gennaio - spiega la nota - ha affermato con chiarezza che un internet libero è un diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere”. Il comunicato poi rincara la dose, mettendo in risalto che “è necessario prestare grande attenzione agli abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare una scusa per violare questo diritto fondamentale”. I vertici di Mountain View hanno definito la sentenza ridicola affermando che il video era stato rimosso quasi subito dopo la segnalazione dell’associazione Vividown e che si sarebbe dovuto condannare gli autori del filmato piuttosto che i dirigenti del provider. “Ci troviamo di fronte a un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet”. Anche “Reporter sans frontières” ha parlato di limiti inaccettabili alla libertà d’espressione. Resta il fatto - sottolineano gli esperti - che nella maggior parte dei casi risalire agli autori dei contenuti e a coloro che li hanno caricati sulla piattaforma di Youtube è un’impresa ardua se non impossibile. D’altronde - affermano altri - pensare che i manager di un provider debbano controllare tutti i materiali messi in linea è una proposta altrettanto folle, contando che il popolo della rete si aggira sui due-tre miliardi di utenti al giorno. Google da solo conta una media di 155 milioni di visitatori al mese.
Il problema alla radice è che la rete è un affare per molti. Youtube dà a tutti la possibilità di guadagnare grazie alla pubblicità: i video più visti - come quello della sentenza di Milano, come altri, magari pornografici, razzisti o violenti - offrono grandi opportunità di introiti da dividere tra gli autori e il provider. È un algoritmo a decidere i filmati che possono essere monetizzati. Tuttavia, il sospetto è lecito, con ogni probabilità sarà ancora una volta il colosso californiano a guadagnare di più da questa operazione, a sfruttare il richiamo alla libertà di espressione per far lievitare gli introiti. Costruire un sistema di controllo è costoso: pagando gli addetti alle revisioni anche solo cinque dollari l’ora, il costo annuo del controllo preventivo dei filmati supererebbe gli ottanta milioni di dollari. Troppo, per i vertici di Mountain View. Troppo, anche se Google guadagna dai dieci ai venti miliardi di dollari l’anno e Youtube vende pubblicità a 178.000 dollari al giorno, quasi cinque milioni e mezzo di dollari al mese. MySpace - dicono le stesse fonti - guadagnerà fino a 900 milioni di dollari l’anno dopo aver firmato un accordo con Google. Cifre da capogiro. È il business della libertà. Che tuttavia non può essere senza freni.
(©L’Osservatore Romano - 27 febbraio 2010)

[2] Star planetaria dell’ateismo militante e abituato alla venerazione da parte dei propri fan, il professor Richard Dawkins sta da qualche giorno sperimentando che effetto fa ruzzolare giù dall’Olimpo e ritrovarsi nel giro di poche ore additato al pubblico ludibrio come rappresentante del peggiore oscurantismo. Proprio lui, il principe dei “Brights”, l’illuminato tra gli illuminati e ultradarwinista (il suo ultimo libro, pubblicato in Italia da Mondadori, si intitola “Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione”).

Come è potuto accadere? Il Times racconta che il biologo inglese – fresco pensionato dall’insegnamento universitario e ormai dedito a tempo pieno alla crociata contro i credenti, ovunque essi si annidino (lui li chiama “ammalati di fede”) – ha annunciato qualche giorno fa di voler ristrutturare la sezione del suo sito web dedicata alla discussione. Si tratta di una semplice “riorganizzazione editoriale”, dovuta al fatto che, ha modestamente scritto Dawkins, “siamo diventati una delle principali risorse del mondo per quanto riguarda le notizie scientifiche e il pensiero razionale”. Circostanza che, si capisce, comporta non poche responsabilità, oltre alla necessità di limitare al minimo le chiacchiere a vuoto e i pettegolezzi senza costrutto. Così, tempo un mese, sul frequentatissimo sito RichardDawkins.net (“Un’oasi della chiarezza di pensiero”), splendidamente rinnovato, chiunque voglia aprire nuove discussioni dovrà assoggettarsi all’approvazione preventiva dei responsabili dei forum. Un sistema “più pulito e più facile da usare”, allo scopo di “promuovere una più ampia varietà di utenti”. I quali sono da ora in poi pregati di “presentare soltanto nuove discussioni che siano davvero rilevanti per la ragione e la scienza”.

Apriti cielo. Dopo l’annuncio di Dawkins il suo sito è stato subissato di post di migliaia di frequentatori anonimi, offesi e inviperiti, i quali accusano l’ormai ex idolo di voler conculcare la facoltà di esprimersi senza limiti sul Web, vale a dire il prototipo e la premessa di qualsiasi altra libertà contemporanea. In un messaggio intitolato “Outrage”, Dawkins si dichiara stupefatto dalla mole e dalla virulenza degli insulti che hanno provocato la chiusura anticipata dei forum in attesa di ristrutturazione. Motivo per cui un ex fedelissimo ha scritto di essersi sentito ferito e sfrattato, come “chi torna a casa e trova le serrature cambiate. Il mio rispetto per il lavoro di Richard è ancora intatto, ma il mio rispetto per lui come una persona è a brandelli”. Questo è niente. C’è chi ha dato a Dawkins del “deficiente assoluto”, chi l’ha chiamato “ano di un topo in suppurazione”, chi gli ha spiegato di ritenerlo degno di ricevere “una manciata di chiodi giù per la gola”. Insulti al vetriolo dettati da “isteria biliosa”, si lamenta Dawkins, per meritare i quali bisognerebbe almeno “aver mangiato un bambino”, o aver “gasato un convoglio di persone inermi”, o quantomeno aver “stuprato un chierichetto” o scippato una vecchina dopo averla spinta giù dalla carrozzella.

In un commento sul suo sito, Dawkins riflette sul fatto che “sicuramente ci deve essere qualcosa di sbagliato in persone che possono ricorrere a certi eccessi di linguaggio”, e che reagiscono in questo modo spettacolare “a qualcosa di così banale”, come l’annuncio di una normale ristrutturazione di un sito. Ma non ci sono i soliti mostri di intolleranza protetti dall’anonimato. Purtroppo, anche coloro che usano termini più moderati “stanno reagendo alle modifiche proposte in un modo a dir poco isterico”. La conclusione, per Dawkins, è che “c’è del marcio nella cultura dello sfogo su Internet”, e che se ci fosse ancora qualche dubbio sulla necessità di cambiare le regole del sito, per quanto lo riguarda quei dubbi “sono ormai dissipati”. Povero Dawkins: una vita spesa a spiegare l’uomo come frutto dell’evoluzione e poi, in mezza giornata, i frutti più maturi e consapevoli di quel processo, i suoi devoti adepti, gli si rivoltano tutti contro, feroci e irragionevoli come tirannosauri. [Nicoletta Tiliacos, Il Foglio, 27 febbraio 2010].

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