«Dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!»
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Mancano tre capitoli alla fine dei Promessi Sposi quando Renzo e padre Cristoforo, ormai minato dalla peste, si incontrano al lazzaretto. Il giovane, come è noto, si salverà e convolerà a nozze, il vecchio frate morirà lì «in servizio del prossimo», come aveva desiderato.
Prima che ritrovi Lucia, Manzoni dedica qualche facciata ad una scena che ho voluto rileggere in classe. Perché l’aula non è un bunker ed è giusto che rimbombi l’eco di ciò che è accaduto al palazzo di Giustizia di Milano. Ma anche perché oggi, ottava di Pasqua, si festeggia la Giornata della Divina Misericordia e Dio sa quanto bisogno c’è, anche a scuola, di far riflettere sul perdono.
Riassumo, scusandomi per le semplificazioni.
Milano è flagellata dalla peste e Renzo teme di non trovare Lucia, o di non trovarla viva. Mentre padre Cristoforo gli dà qualche indicazione ma desidera anche prepararlo al peggio e gli chiede «fiducia e rassegnazione», nel giovane monta la collera. «Se la peste non ha già fatto giustizia», dice Renzo, «è venuto un tempo che gli uomini s’incontrino a viso a viso: e… la farò io la giustizia!». Non gliele manda a dire, il frate, che lo afferra per un braccio e lo rimprovera severamente: «puoi odiare e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera t'andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono». E, condottolo al capezzale di don Rodrigo: «Tu vedi!... Può essere gastigo, può essere misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che ti ha offeso, sì: lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar senno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera di un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d’amore!»
Ci siamo chiesti, in classe, la ragione delle parole e del gesto di padre Cristoforo. Davvero don Rodrigo, «immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra»; davvero quest’uomo, non più in grado di intendere, aveva bisogno del perdono di Renzo? E’ pensabile davvero che Dio, Padre di Misericordia, non possa “fare da solo”?
Il frate, malato, morirà. E forse, il suo, prima ancora che una preoccupazione per don Rodrigo, è un ennesimo gesto paterno nei confronti del giovane che sta per mettere su famiglia, che sarà chiamato ad allevare dei figli e che non può vivere con quel peso nel cuore, con il tarlo dell’odio, della recriminazione, della vendetta.
E’ così vero questo che, quando vedrà per l’ultima volta Renzo e Lucia, mentre dona loro il “pane del perdono” ricevuto per carità dai parenti del nobile che aveva ammazzato da giovane, li lascia con queste parole: «Serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!»
Gli sta ripetendo i precetti, le regole del buon vivere? No. Sta testimoniando quello che aveva imparato dai suoi errori. Le sue mani si erano macchiate di sangue, perché non aveva saputo perdonare. Perché si era lasciato trascinare dall’odio. E l’immagine del morto non l’aveva abbandonato mai, come aveva ricordato a Renzo nel capitolo precedente. «Ho odiato anch’io… l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso.
- Sì, ma un prepotente, uno di quelli…
- Zitto! – interruppe il frate: - credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah, s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l’uomo che odiavo! S’io potessi! Io? Ma Dio lo può: Egli lo faccia!».
Non c’è ragione ragionevole per farsi giustizia da sé, ammesso e non concesso che di “giustizia” si tratti. Ora come allora.
Ma c’è un’altra ragione per cui ho letto ai miei studenti questa pagina. Chi, come me, dal venerdì santo sta recitando la novena alla Divina Misericordia, non può non commuoversi vedendo che quel Dio che ci ama ad uno ad uno, che ci ha scelti dalla notte dei tempi e ha scritto i nostri nomi sul palmo della Sua mano, che conosce il numero dei capelli che abbiamo in capo… Lui, l’Onnipotente, cerca la nostra collaborazione. E’ questo che ha fatto capire padre Cristoforo a Renzo, chiedendogli che perdonasse don Rodrigo, e di pregare per lui. E’ questo che ci ricorda la novena. Giorno dopo giorno abbiamo portato al cuore misericordioso di Gesù i peccatori, i sacerdoti, le anime fedeli, gli increduli, i fanciulli, le anime del Purgatorio, i tiepidi… Non “categorie” di persone, ma volti, nomi, amici, che mentre reciti la Coroncina si affacciano alla finestra del cuore.
E’ dunque un metodo, quello che, come ultimo regalo di una paternità destinata a lasciare il segno, padre Cristoforo ha voluto testimoniare a Renzo. E’ un metodo quello che, in questi giorni in preparazione alla Giornata della Divina Misericordia, vuole insegnarci il Signore.
«Eterno Padre, io Ti offro il Corpo e il Sangue, l’Anima e la Divinità del Tuo dilettissimo Figlio, Nostro Signore Gesù Cristo, in espiazione dei nostri peccati e di quelli del mondo intero.»
«Per la Sua dolorosa Passione, abbi misericordia di noi e del mondo intero.»
Io, tu, che diventa «noi», diventa il «mondo intero». Si chiama comunione dei santi. Una roba dell'altro mondo già in questo mondo.