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Anestesia del cuore

Fonte:
CulturaCattolica.it

C’è qualcosa di peggio dell’indifferenza, del cascasse-il mondo-io-mi-sposto. E’ l’anestesia del cuore. Esserci, vedere, e non provare nulla. Non dolore, non emozioni, non la voglia di reagire. Niente.
Come robot (sarà questa la deriva postmoderna e post-umana?), sfilare dalla tasca lo smartphone e fotografare, filmare, fermare l’attimo e poi postare sui social. Condividere. Si dice così. Condividere, ma senza sporcarsi le mani.
Accade nelle nostre scuole sempre più spesso, davanti agli episodi di bullismo. Accade per strada, di fronte a un’aggressione o a chi si accascia perché si sente male. O nei paesi colpiti dal terremoto o dall’alluvione.
E’ accaduto sul ponte della Norman Atlantic. E chi posta foto e filmati è magari quello che poi ha spintonato per essere calato tra i primi nelle scialuppe di salvataggio.
Accade quando farsi prossimi – relativisticamente (e comodamente) inteso – significa astenersi per contratto dal dirti se hai sbagliato strada. Ti sono accanto, cammino con te, porto la fiaccola, cosa vuoi di più?
Accade nei paesi teatro dei delitti più efferati e più disumani: padri che sterminano famiglie, madri che ammazzano la prole. Diventano nuove mete turistiche, nuovi selfie dei teledipendenti annoiati dalla routine che non fa battere il cuore perché tutto è già stato detto, fatto, visto.
Altra scena in piazza San Pietro. Una Femen-tette-al-vento dal ghigno satanico agguanta il Bambinello del Presepe. Sposti lo sguardo e vedi un gruppo di imbecilli, cellulare puntato sulla scena per la foto da mostrare agli amici. Io c’ero. Sì. E cosa hai fatto? Come hai reagito?
In fondo, cosa mi interessa di quel Bambinello, dei cristiani perseguitati bruciati sgozzati, dell’introduzione dell’ideologia gender nelle scuole, degli uteri in affitto, della compravendita di bambini, dell’attacco sistematico alla famiglia, della cultura della “buona” (!) morte che dilaga…? Ci penserà qualcun altro. Non è compito mio prendere posizione. Il refrain, detto o sottointeso, è questo.
Che i miei compagni si accapiglino pure, in classe o su Whatsapp. Io che c’entro? Si arrangino. Non sono un medico, perché dovrei chinarmi e prestare soccorso a quel Tizio che si sente male, se neanche lo conosco? Non sono un genitore; cosa vuoi che me ne freghi di quel che succede nelle scuole? E ancora. Chi sono io per giudicare le scelte del mio amico, della mia compagna di classe, di mio fratello, o quel che dice la tivù?
Ecco, un desiderio per il 2015 io ce l’avrei. Un antidoto a questa anestesia del cuore. Perché riprenda a battere non (solo) con regolarità – quello può farlo anche una macchina – ma da esseri umani. Da innamorati, mi viene da dire. Vedi la sua sagoma in lontananza, riconosci il suo timbro di voce fra tante, e il cuore batte forte che te lo senti in gola. Vedi/senti qualcosa che non va e ti ribolle il sangue. Sei in pace, e il cuore si acquieta.
Questo, l’antidoto. Non ne conosco altri. Bisogna tornare ad essere innamorati della vita, delle persone che incontriamo lungo il cammino. Non sdolcinatamente innamorati. Non con il timore di traumatizzarle se le richiamiamo al vero. Innamorati del loro destino, più che del loro sorriso hic et nunc. Allora, davvero, nihil humani a me alienum puto: niente di ciò che riguarda l’uomo mi è e mi sarà estraneo. Allora tutto ci riguarda (guarda me, interroga la mia vita); tutto mi interessa perché ne sono dentro, me ne sento parte.
Sia, quest’anno, compito principe dell’educazione, ridestare l’umano, che significa ridestare il cuore. Sia compito del giornalismo (è un sogno, lo so!) dare spazio e voce, finalmente, a chi va controcorrente, a chi, di fronte alla realtà, non si lava pilatescamente le mani, ma se le sporca. E interviene nei casi di bullismo, soccorre chi in strada si sente male, aiuta l’amico a ritrovare la strada, “sentinella” perché ha a cuore la libertà, dona tempo, energie, a quelli che il mondo definisce vite non (più) degne e testimonia che così non è...
Vorrebbe dire che, insieme, stiamo risalendo la china del relativismo e stiamo reimparando a dare un nome alle cose. A riconoscere, vivendolo, ciò che è bene e ciò che è male. Vuol dire uscire dalla trappola asettica del virtuale e reimmergersi nel mondo reale, che chiede giudizi e mani in pasta.
Vuol dire – soprattutto per genitori, insegnanti, educatori – aver chiaro qual è la posta in gioco: l’umanità dell’uomo. Va difesa con le unghie e con i denti.

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