Un uomo, anche se gravemente impedito non diventerà mai un "vegetale"

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"Un uomo, anche se gravemente malato od impedito nell'esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai diventerà un "vegetale" o un "animale"". È quanto ha riaffermato Giovanni Paolo II nel discorso rivolto ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici e dalla Pontificia Accademia per la Vita, ricevuti in udienza nella mattina di sabato 20 marzo.
Il Papa ribadisce con forza la dignità dell'essere umano, in virtù del fatto stesso che "è" uomo, indipendentemente da ciò che è in grado di fare; in particolare la persona gravemente malata, che necessita di totale dipendenza dalle cure per la sopravvivenza fisica, ha tutti i diritti di godere di queste cure fino al momento ultimo, deciso dal Suo Destino.
"Per indicare la condizione di coloro il cui "stato vegetativo" si prolunga per oltre un anno, è stato coniato il termine di stato vegetativo permanente. In realtà, a tale definizione non corrisponde una diversa diagnosi, ma solo un giudizio di previsione convenzionale. Tuttavia, non va dimenticato o sottovalutato come siano ben documentati casi di recupero almeno parziale, anche a distanza di molti anni, tanto da far affermare che la scienza medica, fino ad oggi, non è ancora in grado di predire con sicurezza chi tra i pazienti in queste condizioni potrà riprendersi e chi no. Di fronte ad un paziente in simili condizioni cliniche, non manca chi giunge a mettere in dubbio il permanere della sua stessa "qualità umana". Sento il dovere di riaffermare con vigore che il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della sua vita. Anche i nostri fratelli e sorelle che si trovano nella condizione clinica dello "stato vegetativo" conservano tutta intera la loro dignità umana. Lo sguardo amorevole di Dio Padre continua a posarsi su di loro, riconoscendoli come figli suoi particolarmente bisognosi di assistenza".
Dire queste cose, in una società dove le regole economiche regolano il mercato della vita quotidiana, comprese ormai le regole della sanità, fanno continuamente mettere in discussione l'idea di uomo che è alla base dell'agire quotidiano. In particolare per gli operatori sanitari ripensare ogni giorno a quale sia lo scopo del proprio lavoro, quale sia la natura della "materia" che viene trattata, quali le sue caratteristiche intrinseche e indiscutibili, è un dovere perché l'agire sia vero e quindi incisivo sulla trasformazione della realtà, nelle sue componenti del dolore e della malattia.
"Verso queste persone, medici e operatori sanitari, società e Chiesa hanno doveri morali dai quali non possono esimersi, senza venir meno alle esigenze sia della deontologia professionale che della solidarietà umana e cristiana. L'ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.), ed alla prevenzione delle complicazioni legate all'allettamento. Egli ha diritto anche ad un intervento riabilitativo mirato ed al monitoraggio dei segni clinici di eventuale ripresa. In particolare, vorrei sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze. La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l'abbandono o l'interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l'unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione".
Se è necessario e doveroso essere accanto alle famiglie che hanno avuto un loro caro colpito da questa terribile condizione clinica perché non possono essere lasciate sole col loro pesante carico umano, psicologico ed economico, è necessario per ognuno essere fautore di questa cultura di vita, che sola permette il rispetto di ogni essere umano dal momento del concepimento al momento estremo del definitivo compimento del proprio destino.
La scelta in campo medico di proseguire le cure a un paziente che parrebbe non avere più speranza di reversibilità della propria condizione è una scelta difficile, coraggiosa, costosa, sia in termini economici che di compartecipazione emozionale, lavorativa e quant'altro; ma alla base sta la motivazione e la concezione della vita che vogliamo vivere…