Yolande Mukagasana - Un giorno vivrò anch'io. Il genocidio del Rwanda raccontato ai giovani.
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Yolande Mukagasana tratta nel testo Un giorno vivrò anch’io. Il genocidio del Rwanda raccontato ai giovani l’esperienza vissuta in prima persona dei massacri avvenuti in Rwanda di un milione di persone innocenti ed inermi negli anni compresi fra il 1959 e il 1994.
Riscattare il passato e rendere giustizia alla verità della storia sono gli scopi della sua vita, e con la sua testimonianza di sopravvissuta l’Autrice si propone di far conoscere in particolare ai giovani ciò che è successo nella sua terra, perché si condannino i crimini commessi, non si dimentichino i nomi e i volti di tante vittime perseguitate e non si commettano nuove carneficine e genocidi negli anni a venire.
Il testo della Mukagasana inizia con brevi cenni alla storia del Rwanda e agli anni precedenti la colonizzazione (avvenuta nella seconda metà dell’800), quando i tre gruppi degli Hutu, dei Tutsi e dei Batwa, appartenenti allo stesso ceppo etnico-culturale-linguistico vivevano assieme sulla stessa terra, senza rilevanti differenze fra loro e soprattutto senza antagonismi e inimicizie.
Successivamente gli abitanti del Rwanda si vennero differenziando per opera e volontà dei colonizzatori che, dal 1860 in avanti, cercarono collaboratori locali, scelti fra i Tutsi per svolgere funzioni amministrative e pubbliche.
Ma ciò che provocò in modo irrimediabile divisioni e contrasti fu la carta d’identità voluta dai colonizzatori nel 1931, che imponeva la dichiarazione scritta di appartenenza ad uno dei gruppi.
Questa operazione costò cara ai Rwandesi e la Mukagasana a questo proposito afferma: la storia del nostro paese è stata manipolata per dare spazio alla politica, finalizzata unicamente a dividere per governare….. Classificando e suddividendo in etnie quelli che prima erano fratelli, nessuno si è mai accorto del pericolo che si stava avvicinando… Da quel giorno (del 1931) la nostra identità è stata scritta con lettere di sangue e i rwandesi sono stati considerati prima come razze, poi come etnie.
A causa di questa politica divisionista, i Tutsi furono ben presto identificati con il gruppo dei più intraprendenti, culturalizzati, ricchi, adatti a gestire poteri e cariche, e gli Hutu con il gruppo dei socialmente svantaggiati e dei più poveri. Si fece sempre più strada l’idea che la sottrazione dei beni dei Tutsi e il loro sterminio fosse la soluzione di tutti i problemi economici e politici degli Hutu.
Le distanze col passare degli anni divennero sempre più profonde: si fomentavano le discordie sociali e si moltiplicavano le ribellioni, così si andavano perdendo quei valori fondamentali che avevano caratterizzato la storia passata: la fratellanza, la giustizia, la tolleranza reciproca, il rispetto sacrale della vita. E il percorso dell’odio conobbe il calvario delle vendette e delle persecuzioni che giunsero al loro apice negli anni compresi fra il 1959 e l’aprile e il luglio del 1994.
Nel 1959/60 le autorità centrali dei colonizzatori spinsero i Tutsi a spostarsi nelle foreste vicine o a rifugiarsi nelle chiese, che non erano mai state precedentemente violate dagli assassini. Ma l’Autrice afferma che quelli che dovevano essere luoghi di protezione e salvezza per i Tutsi si trasformarono in luoghi di morte perchè in realtà, l’obiettivo era quello di facilitare la loro uccisione.
Le abitazioni dei Tutsi vennero in quegli anni occupate, saccheggiate, bruciate, molte ragazze subirono violenze e i giovani furono incarcerati e torturati.
Tutto questo per aver instillato negli Hutu una menzogna: che i Tutsi erano nemici e stranieri nel Paese, che la vita di un Tutsi non valeva niente e che soprattutto costituiva un pericolo per l’umanità.
La particolarità di quelle stragi era la vicinanza: cioè la prossimità delle abitazioni dei carnefici rispetto a quelle delle loro vittime, i rapporti quotidiani di amicizia che legavano queste ultime ai persecutori, molti dei quali erano giovani che non si rendevano conto di ciò che facevano ed erano istigati dagli adulti ad agire ciecamente e irresponsabilmente.
Ma, afferma l’Autrice, appellandosi direttamente ai giovani nel suo testo: Cari piccoli, bisogna dire no in certi casi, e disubbidire al male piuttosto che distruggere la vita.
L’altra tragica data da ricordare è quella del 1994, quando dall’aprile al luglio in Rwanda si è compiuto l’ultimo genocidio del 1900.
L'uccisione del presidente Juvénal Habyarimana fece esplodere la miccia e la fazione più reazionaria delle forze governative scatenò una feroce repressione ordinando l'uccisione di tutti i componenti dell'etnia minoritaria Tutsi.
Il progetto del genocidio venne preparato a lungo, per almeno quattro anni. Dal luglio del 1993 all'aprile successivo, le violenze contro i Tutsi e alcuni democratici Hutu, condotte dalle milizie e dalle bande di giovani affiliati ai partiti di governo, si erano intensificate.
Che esecuzioni e violenze fossero imminenti, afferma la Mukagasana, lo si temeva dall’inizio del 1994, ma nessuno pensava che gli Hutu potessero massacrare i Tutsi e pensavamo che sarebbero stati i militari a farlo. Coabitavamo senza nessun problema, eravamo amici, alcuni di noi avevano parenti in comune e ci si sposava fra di noi.
Invece si scatenò l’inferno e i vicini di casa divennero i primi carnefici di famiglie, vecchi e bambini che conoscevano e con i quali avevano condiviso vita e lavoro. Nel volgere di pochi giorni l’Autrice racconta di aver perso il marito, il figlio di 15 anni, le due figlie di 14 e 13 anni, che, catturati, erano stati seviziati e poi uccisi.
I giorni e le notti si trasformavano in incubi. Il mondo era crollato. Non vedevo più validi motivi per continuare a vivere…Ho passato settimane senza cibo né acqua, non parliamo poi dell’odore del mio corpo…Gli assassini uccidevano torturando… Infliggere sofferenza, umiliazione e morte era il loro valore…Hanno fatto sprofondare l’umanità nelle tenebre senza fine.
Come ha più volte affermato negli incontri pubblici cui è stata invitata a partecipare, Yolande non scrive spinta dall’odio, ma per chi vuole conoscere ed è pronto a lottare.
Le nostre differenze costituiscono la nostra ricchezza ed è su queste differenze che abbiamo il dovere di costruire un mondo migliore per vivere felici. Fate come me, disubbidite al male, ribadisce nel testo, appellandosi principalmente ai giovani.
I pochi tentativi di resistere alle stragi furono presto vanificati, anche se molte persone coraggiose fra gli Hutu si spesero, a costo della propria vita, per salvare i fratelli.
Così Yolande cita Manuela che l’ha nascosta, pur essendo Hutu, per 11 giorni sotto il suo acquario nel giardino, e alla fine è dovuta fuggire con lei, e la vecchia Zura che nascondeva i Tutsi nella sua casa, tenendo lontani i miliziani con i suoi amuleti e gli spiriti maligni che la proteggevano contro chiunque volesse irrompere nella sua abitazione.
In quel clima di terrore e di violenze, né le potenze occidentali né quelle africane presero delle iniziative per fermare la strage e subito dopo il genocidio nessuna ONG internazionale si è occupata delle vittime.
Per questo , la coraggiosa protagonista del genocidio del Rwanda ha fatto della testimonianza la sua ragione di vita e scrive la sua storia per le generazioni future, affinché un giorno non possano dire “io non lo sapevo”
Per quanto mi riguarda - conclude l’Autrice -...il genocidio ha agito sul mio cuore, l’ha motivato in amore. Il genocidio ha portato in me la speranza. La sofferenza, scuotendomi, mi ha risvegliata... Continuerò la strada del mio instancabile lavoro: combattere la politica dell’autodistruzione degli uomini. La fatica è il mio orgoglio.
Vivrò per creare intorno a me un mondo migliore.
Vivrò costruendo l’amore sopra l’odio e la cattiveria.
Vivrò la mia vita per ricostruire la vita sulla morte.