Susan Abulhawa, Nel segno di David
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Con stile lucido e appassionato l’autrice, Susan Abulhawa, cittadina americana di origine palestinese, narra la storia dolorosa della sua famiglia dal 1941 ai nostri giorni.
Per noi che viviamo in Occidente e che spesso ci accostiamo con disincanto ai problemi di quel crogiolo di popoli e di culture che è il Medio Oriente, la lotta tra Palestinesi e Israeliani ci appare talvolta incomprensibile per le nostre usuali categorie di giudizio.
A tale proposito in un passaggio del libro la cognata Fatima così si rivolge ad Amal, la protagonista: ”Credo che la maggior parte degli occidentali non ami come noi, non perché non ne siano in grado ma semplicemente perché vivono in zone sicure…l’occupazione Israeliana ci conduce fin da piccoli agli estremi delle nostre emozioni…le radici della nostra sofferenza affondano così profondamente nella perdita, che la morte fa ormai parte del nostro quotidiano… la nostra è una rabbia che gli occidentali non possono comprendere" (pag. 241)
Queste parole ci indicano con chiarezza la chiave di volta per una lettura scevra da pregiudizi, lasciandoci coinvolgere in una storia appassionante e ricca di colpi di scena.
Dopo un breve prologo in cui racconta la storia della sua famiglia, Amal, donna palestinese che vive in America e voce narrante, racconta l’evento tragico da cui ha hanno inizio tutte le vicende del libro.
Nel 1948, nel campo profughi palestinese di Jenin dove viveva la sua famiglia, durante un raid un soldato israeliano rapisce il piccolo Ismael per dare un figlio alla moglie sterile e lo cresce come un vero ebreo, chiamandolo col nuovo nome di David.
La vera madre di Ismael, Dalia, da quel momento precipita in un abisso di disperazione alleviato solo dalla presenza dell’altro figlio Youssef e, nel 1955, dalla nascita della figlia Amal.
I fatti si susseguono drammatici e impietosi per il popolo palestinese che viene decimato nel 1967 nella “Guerra dei sei giorni” in seguito alla quale Amal, ormai orfana di entrambi i genitori, viene accolta in un orfanotrofio a Gerusalemme dove può studiare sino all’Università. Successivamente Amal si trasferisce negli Stati Uniti dove trova una buona accoglienza ma soffre per lo sradicamento dalla sua terra di origine: ”Mi trasformai in un non meglio identificato ibrido arabo-occidentale privo di radici. Bevevo alcolici e uscivo con colleghi maschi, atteggiamenti per cui a Jenin sarei stata ripudiata. Vagavo da una cultura all’altra e finii per smarrirmi”. (pag.220)
Nel 1981 Amal torna in Libano dove si era trasferito il fratello Youssef con la sua famiglia e sposa Majid, un medico palestinese. Ma la serenità non dura molto: in seguito a incursioni israeliane in Libano per colpire l’OLP di Arafat, Amal torna negli Stati Uniti intenzionata ad aprire la via dell’immigrazione al marito e alla famiglia del fratello.
Ma un altro tragico evento travolge la sua vita: il 6 giugno1982 Israele distrugge i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila e nell’eccidio Amal perde il marito Majid, la cognata Fatima con una bimba piccola e un’altra in grembo.
“Ad agosto i risultati erano 17.500 civili uccisi, 40.000 feriti, 400.000 senza tetto e 100.000 dispersi”. (pag.271)
Il fratello Youssef, più volte arrestato dagli Israeliani, dopo la perdita della sua famiglia entra come militante nell’OLP e si trasforma in terrorista.
Nel frattempo Amal in America dà alla luce una bambina, Sara, e cerca di sopravvivere alle dure prove del destino. Nel 2001 accetta di incontrare il fratello David che nel frattempo era venuto a conoscenza della sua vera identità e desiderava ricostruire i legami con la sua famiglia d’origine, anche se il rapporto non è privo di difficoltà: ”Ci fissammo con uno sguardo disperato, scrutandoci a vicenda nel profondo degli occhi alla ricerca del muto imperativo di riallacciare un destino lacerato. E qualcosa prese forma tra noi in quell’istante di riflessione. Qualcosa di tenero.” (pag.161)
Nel 2002 Amal, sollecitata dalla figlia Sara, accetta di tornare a Jenin, rivede l’amica d’infanzia Huda e altri familiari ma ancora una volta il filo rosso della violenza che aveva attraversato la sua esistenza la ghermisce: mentre cerca di salvare sua figlia viene uccisa da un soldato israeliano.
Alla morte della sorella David, sempre in lotta con la sua doppia identità, le rivolge un pensiero pieno di gratitudine: ”Non bevo più sorella. In qualche modo, mi hai fatto un dono. Non sarò mai del tutto ebreo né musulmano. Mai del tutto Palestinese né Israeliano. La tua approvazione mi ha reso soddisfatto di essere semplicemente umano”. (pag.355)
Il romanzo si chiude dunque con una luce di speranza nell’accettare di scommettere sulle relazioni tra le persone come vera risorsa dell’umanità, anche se non rinuncia a denunciare l’ipocrisia di molte posizioni politiche: “Al campo di Jenin furono seppelliti 53 cadaveri in una fossa comune ma il rapporto ufficiale delle Nazioni Unite concluse che non si era verificato alcun massacro”. (pag.352)