Michela Giordano, Quando rimasero soli
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Eroi dimenticati in casa nostra
Quando pensiamo a drammatiche vicende di uomini e donne perseguitati o addirittura eliminati da regimi brutali, generalmente rivolgiamo lo sguardo fuori dall’Italia, in quelle parti del mondo dove le libertà dei singoli sono violentemente coartate.
Se tale sguardo ha una sua ragionevolezza, talvolta dimentichiamo che anche in Italia, paese dove da decenni vige una collaudata democrazia, possono accadere drammi terribili causati da scontri tra libertà individuali e organizzazioni criminali che si muovono nell’ombra della società fino ad arrivare ad inquinarne i livelli istituzionali.
Ci riferiamo a quanto accade ancora oggi nel nostro paese per la presenza di quel complesso fenomeno che va sotto il nome di “Mafia” e che condiziona da anni una parte della popolazione.
In tal senso è molto interessante il libro della giornalista Michela Giordano in cui si racconta l’uccisione da parte di elementi legati alla mafia di due Capitani dei carabinieri: Emanuele Basile e Mario D’Aleo. Destinati entrambi alla guida della Compagnia dei Carabinieri di Monreale furono uccisi in due agguati, il primo nel 1980 in una pubblica via di Monreale dove passeggiava con la moglie e la figlia di quattro anni, il secondo a Palermo sotto la casa della fidanzata insieme a due colleghi, Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.
I due Capitani erano giovani (30 e 29 anni), si erano insediati da poco a Monreale, consapevoli dei pericoli a cui sarebbero andati incontro, dei sacrifici a cui sottoponevano i familiari costretti ad una vita blindata e solitaria. Le loro erano vite dominate non dalla paura ma certo dalla preoccupazione, dalla altissima tensione e dalla solitudine.
Così l’autrice sintetizza il senso dell’impegno dei due carabinieri:
“Ci sono due modi per essere un buon servitore dello Stato: il primo è tirare avanti a testa alta e schiena dritta …spendendosi ben oltre i propri limiti e facendo anche della propria vita personale e familiare un modello di virtù civiche. Il secondo modello è quello dell’adeguarsi alla corrente, vivere nel compromesso e nella logica della carriera.” (pag.38)
I due Capitani dei Carabinieri avevano entrambi scelto la prima strada indagando a tutto campo sul traffico di stupefacenti che aveva il suo perno nel paese di Altofonte, sulle relazioni internazionali tra uomini appartenenti a note cosche mafiose, sui collegamenti tra le potenti “Famiglie” dei Corleonesi e dei Sorrentino fino a riuscire a fare arrestare personaggi di spicco della malavita siciliana.
Al dramma della loro uccisione ben presto se ne aggiunse un altro riguardante l’indagine seguita all’omicidio (guidata personalmente da un giudice istruttore dal nome di Paolo Borsellino) indagine che portò al fermo di tre pregiudicati noti come esecutori di svariati omicidi. Tuttavia, nonostante la moglie del Capitano Basile, Silvana, avesse visto con i suoi occhi l’uccisore del marito e altri due testimoni oculari avessero individuato i due complici, nel marzo del1983 il Tribunale di Palermo pronunciò una clamorosa sentenza di assoluzione dei tre indagati.
La decisone della Corte indignò il Paese e i familiari del Capitane ne furono feriti al punto che la moglie dichiarò alla stampa: “Mio marito è stato ucciso per la seconda volta … ma io uno dei criminali me lo ricordo bene, dovessi campare cent’anni”. (pag.57)
I tre imputati furono inviati ad un soggiorno obbligato in Sardegna da dove fuggirono clamorosamente dopo una settimana, tornando a Palermo con l’aiuto di amicizie compiacenti.
Il martirio per la famiglia Basile durò 12 anni, durante i quali vi furono ben tre condanne in appello annullate regolarmente in Cassazione e fu solo nel 1992, in occasione del famoso “maxiprocesso” per mafia che la Cassazione confermò l’ergastolo per tutti gli imputati.
La giustizia negata per l’omicidio Basile si intrecciò con altri procedimenti giudiziari che videro, alternativamente, magistrati collusi con la mafia e magistrati integerrimi che pagarono con la vita la loro onestà (nel libro vien ricordata l’uccisone del magistrato Antonio Saetta insieme al figlio Stefano).
Analoga vicenda fu quella del Comandante d’Aleo che avviò un complesso lavoro di indagini nei confronti di famiglie mafiose, tra le quali spiccava per efferatezza quella dei Brusca e per questo venne eliminato. (Per affiancare il lavoro del Capitano d’Aleo fu inviato a Palermo il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che come è noto fu barbaramente assassinato insieme alla giovane moglie il 3 settembre 1982).
Ancora una volta, come nel caso di Emanuele Basile, seguirono ben otto anni di indagini a vuoto e solo con la collaborazione di “pentiti eccellenti” fu possibile assicurare alla giustizia i componenti del gruppo di fuoco e i loro mandanti.
Oggi i nomi dei due coraggiosi carabinieri sono dimenticati e sui giornali vengono ricordati altri nomi eccellenti vittime di quel terribile dramma che è la lotta alla mafia, ma tutti sono egualmente testimoni coraggiosi di libertà e di resistenza ad una cieca violenza che offende la dignità di un popolo.
In tal senso vogliamo chiudere con le parole dell’Autrice, nell’epilogo del libro:
“Ho raccontato la storia di Emanuele Basile e di Mario d’Aleo in un misto di rabbia e di orrore, ma anche con la ferma volontà di lanciare un messaggio di speranza.
Credo fermamente che ciascuno di noi possa contribuire a migliorare il mondo in cui viviamo. La tristezza di queste storie di mafia e di sangue non può aver la meglio per un futuro nel quale più nessuno attenti alla vita di un altro, dove nessuno si arroghi un diritto sulla libertà di tutti di vivere una vita serena e tranquilla.
Utopia? Sì e no. Dipende dalla propria coscienza e dai valori umani che ognuno porta dentro di sé” (pag.141)