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Marcello Foa e Manuel Antonio Bragonzi, Il bambino invisibile

Autore:
Bianchi, Maria Rosa
Fonte:
CulturaCattolica.it
Ed Piemme - € 16,50

Nel nostro mondo l’immagine che abbiamo di un bambino di 5 anni è certamente quella di una creatura che sta affacciandosi alla vita, via via la scopre, nomina la realtà, impara a fare da solo, ma è ancora totalmente dipendente dagli adulti che lo accudiscono e cercano di proteggerlo, il più a lungo possibile, dalle difficoltà o dagli insuccessi; ci sembra davvero troppo piccolo per incontrare la fatica del vivere. Vorremmo sempre che fosse una creatura lieta e spensierata.
Della storia di Manuel Antonio, quello che immediatamente colpisce con durezza il lettore – come fosse un pugno nello stomaco - è che è totalmente e drammaticamente vera, e che il protagonista è un bambino di pochi anni come uno dei nostri figli o nipoti, al quale non si riesce a non paragonarlo immediatamente.
E’ il 1981, siamo a S. Elena, a 200 km di distanza da Santiago del Cile. “S. Elena era un paesino di poche case… A S. Elena... le giornate erano dure, monotone, e i suoi abitanti in eterna lotta per sopravvivere alle malattie, sovente fatali, e a paghe talmente esigue da non garantire nemmeno il minimo indispensabile… L’alcol era l’unico svago condiviso dagli uomini del paese”. Il bambino del titolo è invisibile per l’indifferenza che nel villaggio lo circonda: non ha padre né madre, non è di nessuno, non interessa a nessuno, nessuno lo accudisce. “Io talvolta mi univo alle donne (che raccoglievano le foglie secche) con l’entusiasmo e l’incostanza di un bambino di 5 anni, a cui però nessuno prestava attenzione, che nessuno chiamava per nome, che nessuno ringraziava. Potevo accatastare una pila di rami più alta di me o restarmene sdraiato sul ciglio del cammino: per gli altri era sempre indifferente ciò che facevo”. Dopo aver ricevuto le frustate dal nonno “Io rimanevo nella stanza con mia nonna, ma era come se fossimo entrambi soli. Io ignoravo lei, lei non badava a me. Non ci dicevamo nulla. Io uscivo e lei non mi chiedeva dove andassi e se rimanevo a casa, a lei non importava nulla. Ero un fantasma anche a casa mia”.
A 5 anni Manuel Antonio scopre, da un vicino, che due anni prima la sua mamma è morta, uccisa proprio da quello che lui ritiene il suo nonno. Questo fa maturare in lui la rabbia e il desiderio di fuggire lontano e così, dopo l’ennesima violenza, scappa nella foresta dove rimarrà per tre anni. La storia avventurosa di Mowgli e dei suoi amici animali è solo un riferimento da terza di copertina: in realtà la vita di Manuel è fatta di fame, solitudine; nulla ha di avventuroso se non nella condizione estrema dell’esistenza di un bambino sempre più invisibile e solo. Tuttavia, questo è ciò che sembra più incredibile, l’uomo, seppur ancora cucciolo, è forte, ha delle risorse di cuore e intelligenza che nessuno ha educato, eppure esistono e lo aiutano ad imparare e crescere. Manuel è sveglio, sa osservare. Spiando nella foresta i gesti di uno sconosciuto, impara a costruire una fionda con cui va a caccia. Imitando a lungo con attenzione le mosse di un gatto, impara a catturare gli uccellini che poi cuoce la notte sulle ultime braci del fuoco acceso dai pastori ai margini del villaggio. Dorme sotto gli alberi e si ciba di quello che trova, piccolo e denutrito riesce a sopravvivere. Ogni tanto fa anche qualche incursione nel villaggio, sempre più sporco e selvatico, ma chi lo vede non se ne interessa. In una realtà ostile, sviluppa positivamente la certezza che la natura gli è amica, lo nutre e lo protegge, come gli uomini non hanno mai fatto, al di fuori di sua madre, di cui ha solo qualche lontano ricordo.
Tuttavia in queste circostanze impossibili avviene in lui un percorso reale di educazione, reso possibile innanzitutto dalla certezza di essere stato amato da una madre tenera, una mamma che non c’è più, che emerge piano piano dalla memoria insieme al ricordo della sua morte drammatica: “Lei mi stringeva a sé intensamente, perdutamente, come solamente una madre, dolce e protettiva, sa fare con un figlio”. La sua rimane una presenza che sostiene anche le decisioni più difficili:
Sognai mia madre quella notte… Quando aprii gli occhi mi sentii felice.
Perché avrei dovuto essere felice? …Ora lo so.
Stavo accettando il mio passato e il mio presente.
Accettai che mia madre fosse morta.
Accettai che mio nonno, il mio unico genitore, fosse l’assassino di mia mamma.
Accettai i segni delle frustate su di me.
Accettai l’esclusione degli altri.
Accettai di avere dato fuoco ai panni stesi, ma senza rimorso.
Accettai la solitudine.
Accettavo tutto quello che mi era capitato.
Perché così voleva mia madre
”.
Un altro punto di costruzione è che Manuel Antonio si sente appartenente ad una famiglia, sostanzialmente rappresentata dal nonno. Dai 3 ai 5 anni, Manuel sta con il suo abuelito, il nonno: un nonno freddo, violento, che lo ignora se non per punirlo duramente. E’ una figura sconcertante , a cui tuttavia non solo non viene mai rivolta una parola di odio, ma si intuisce addirittura un legame di affetto. “Era el mi abuelito e solo lui si occupava di me. Male, certo. Era crudele, era violento, ma era il mio riferimento, rappresentava la mia famiglia”.
Avrei dovuto odiarlo, el mi abuelito, eppure non ci riuscivo. Non volevo, non potevo. Nemmeno ci provavo. Nonostante tutto”.
“Vivevo nel mio mondo, aggrappato alle poche certezze che la vita mi aveva dato: un nonno, una casa, la natura. E me stesso”.
“Una normalità fatta di silenzi, di una vita dura, di quella puzza d’alcol che aleggiava sempre nella nostra unica stanza. Ma era la mia famiglia e non mi capacitavo che gli altri avessero un padre e una madre. Era la mia certezza
”.
La Provvidenza si è rivelata in pochi altri incontri, anche se occasionali e brevi: primo fra tutti, l’uomo della fionda.
La Provvidenza apparve prendendo le sembianze di uno sconosciuto”.
“Io lo guardavo affascinato (Stava costruendo una fionda) memorizzando ogni suo gesto”.
“Mi guardò incuriosito con la meraviglia di chi incontra sul suo cammino un cucciolo di cane, piccolo e denutrito… Prese la fionda e la infilò nella cinta dei pantaloni. Afferrò il coltello e fece come per infilarlo nella borsa, ma poi si fermò. E mi fissò con uno sguardo allo stesso tempo impietosito e complice… Appoggiò il coltello sul masso, lasciando altri frammenti di copertone e un quadratino di cuoio. E’ per te, mi disse. Null’altro”.
Non ho mai saputo perché quel cacciatore mi abbia dato il coltello… Senza il suo inspiegabile e nobile gesto non sarei sopravvissuto
”.
La maggior parte delle vicende narrate sono dolorose, ma nel bambino vediamo via via emergere la coscienza di sé e della realtà, innanzitutto il riconoscimento del bisogno primo di ogni uomo: “Io non invidiavo nessuno, non provavo rancore, io volevo solo amare ed essere amato”.
Proprio questo bisogno non riconosciuto lo porta ad avere il coraggio della libertà. “Sentivo sempre di più il richiamo del bosco, della libertà. Io non ero un bambino come gli altri, io ero un figlio della natura: e nella natura dovevo stare per ritrovare la pace e il riconoscimento che i miei simili – gli esseri umani – continuavano a negarmi”.
“Non ero abituato a tanta bellezza, a sentire tutto quell’amore nell’aria. Mi batteva forte il cuore. E non provavo né dubbi né rimorsi. Avevo scelto. A 5 anni ero un bambino libero
”.
Incontra e sa cogliere la bellezza del creato, e da qui riconosce, lui a cui nessuno ha mai parlato di Dio, che ci deve essere un Creatore buono. La natura diventa la sua casa. “Dov’era Dio a S. Elena? C’era. A 5 anni non conoscevo il mondo, ma intuivo che c’era qualcosa attorno a me, qualcosa di importante che dava vita a tutto. Lo sentivo come lo sente un bambino, dal cuore puro e la mente ancora chiara: Una Presenza era nella natura, era dappertutto, anche dentro di me”.
“Chi sei?.. Chi ha fatto tutte queste cose? Chi ti ha creato, albero? Chi ti ha disegnato, torrente? Non conoscevo l’esistenza di Dio, ma percepivo qualcosa di superiore, di magico, che univa tutti gli esseri viventi e le piante e le rocce e la terra. Capivo che queste bellezze non potevano nascere da sole. Intuivo che un giorno avrei saputo e avrei ringraziato quell’entità misteriosa. Scoprii, senza esserne consapevole, l’esistenza di Dio e senza esserne consapevole gli dicevo: Eccomi, sono tuo
.”

Tutte queste esperienze portano Manuel Antonio al punto cruciale della sua vita: abbandonato definitivamente dal nonno che chiama le guardie perché se lo prendano, viene messo in un istituto. Lì lo troveranno Milvia e Romolo e inizierà per lui, con l’adozione, un nuovo percorso, fatto questa volta di cura, affetto, istruzione. Oggi è un giovane uomo che ha saputo dolorosamente raccontare la sua storia a chi poteva scriverla, e, pur conservando nel cuore la ferita profonda dell’infanzia, non ne è rimasto intrappolato e sa accompagnare sorridendo i suoi bellissimi figli.

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