"Il treno dei bambini" 4 - Il viaggio
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Il viaggio
Sotto il cielo plumbeo e una fitta pioggia madre e figlio si avviano verso un palazzo che Antonietta chiama l'Albergo dei poveri. Qui tutti i bambini devono essere preparati per partire: controlli, verifiche raccomandazioni. Una signorina dà le istruzioni:
“Dice che ci dobbiamo mettere in fila, che ci devono fare i controlli e poi ci devono cucire il numero per riconoscerci, sennò, quando torniamo, va a finire che restituiscono a ogni famiglia il figlio sbagliato e non ci ritroviamo più. Io solo mia mamma tengo e non voglio essere scambiato con un altro, perciò mi aggrappo alla sua borsa e dico che le scarpe nuove, alla fin fine non mi servono e, se è per me, ce ne possiamo pure tornare a casa. Lei però o non mi sente o non mi vuole sentire. Io ho la tristezza nella pancia e penso che forse era meglio che continuavo a fare il minorato cacaglio per non partire. Giro la faccia perché non voglio che lei mi vede piangere e invece mi viene quasi da ridere: due file dietro a me e in mezzo alla folla ci sta Tommasino.
- Tommasì - grido - stai aspettando il vaporetto per Ischia? Lui mi guarda con una faccia bianca bianca, sta morto di paura. Alla fine pure sua madre ha dovuto chiedere la carità!" (pag.24).
Fra i bambini di tutte le età c’è chi ora si mette a piangere, chi vorrebbe partire col fratello, chi non vuole mettersi in fila, chi chiede di tornare a casa.
La Pachiochia guida una processione di donne decise a non far partire i bambini destinati, dicono, alla Siberia. “Non ve li vendete i figli vostri! Ve li mandano in Siberia a faticare, se non muoiono di freddo prima!” Grida.
Le signorine le contrastano, dicono che i treni sono fatti per il bene dei piccoli, che si troveranno bene e saranno curati. “Questa è una guerra contro la fame e la povertà e se voi combattete vinceranno i figli vostri “urla Maddalena.
Nel trambusto generale ad Amerigo e Tommasino si unisce Mariuccia, una bimbetta senza mamma che con gli altri quattro fratelli non poteva più essere mantenuta dal padre e “non era ancora capace di scaldare due maccheroni sul fuoco”.
Prima di partire ai piccoli viaggiatori, lasciate le mamme, viene fatta la doccia, tagliati i capelli ai maschi e fatte le trecce alle bambine, vengono dati abiti e scarpe nuove, camicie e cappotti, pane e formaggio.
Amerigo, Tommasino e Mariuccia stanno ben attaccati fra loro, un po’ per non perdersi e un po’ per farsi coraggio.
“Il treno da lontano è tale e quale a uno che ho visto nel negozio di giocattoli al rettifilo. Man mano che si avvicina, si fa più grande, poi diventa enorme.
Tommasino si nasconde dietro a me per la paura. Non si accorge che tengo paura pure io. Le signorine ci controllano i numeri sui cappotti e leggono il nostro nome da un elenco. Amerigo Speranza, dice una delle signorine quando tocca a me. Io salgo tre scalini di ferro e mi ritrovo sul treno.
È umido e puzza di chiuso, come il basso della Pachiochia. Da fuori sembrava così grande invece dentro è scomodo e stretto. Come tanti sgabuzzini uno appresso all'altro che si aprono e si chiudono con le maniglie di ferro. Ora che sto qua sopra mi accorgo che tutto è andato così veloce e che pur volendo non posso più tornare indietro. Penso a mia mamma che già se ne sarà tornata dentro al basso nostro e mi sento la tristezza nella pancia” (pagg. 38, 39)
Dal finestrino Antonietta passa una piccola mela annurca ad Amerigo che la mette in tasca per conservarla.
E a questo punto accade l'imprevedibile: quando tutti si agitano per i saluti, i bambini si sfilano i cappotti e li lanciano dai finestrini. "Questo era il patto, dice Tommasino: i bambini che partono lasciano i cappotti ai fratelli che restano, perché nell'Alta Italia l'inverno è freddo, ma pure qua non è che fa caldo" (pag.41).
E così farà anche Amerigo, pensando che il suo cappotto servirà a scaldare sua madre.
Il capostazione alza la paletta e la locomotiva si muove.
"Il viaggio è lungo. Le grida, i pianti e le risate della partenza non li sento più. Sento solo il rumore del treno che batte sempre uguale e quella puzza di umido, di vecchio, come nella cappella con gli scheletri vivi. Guardo fuori dal finestrino, penso al mio posto nel letto di mamma, al caffè di Capa ‘e Fierro nascosto sotto il materasso. Penso alle strade dove me ne andavo girando tutto il giorno a fare le pezze col sole e con la pioggia... Penso ai vicoli dove abitavo io, più stretti e più corti di questo treno. Penso a mio padre, che se ne è andato all'America, penso a mio fratello maggiore Luigi, che se ne è andato con l'asma bronchiale e mi ha lasciato partire solo a me. Ogni tanto la testa mi cade sulla spalla, gli occhi si chiudono e si confondono i pensieri. Intorno a me quasi tutti dormono. Io guardo ancora fuori. Vedo la luna che corre sopra i campi, come se giocasse ad acchiapparella con il treno. Mi accuccio sul sedile, mi stringo le gambe con le braccia. Le lacrime calde e azzeccose mi scendono sulle guance, si infilano nella bocca, sono salate e mi rovinano il ricordo del sapore della cioccolata." (pag.47).
Dal buio di una galleria improvvisa spunta una luna grande che illumina tutto di bianco mentre strade, case, alberi sono coperti da una neve leggera. ”’A ricotta,…’a ricotta” grida qualcuno.