Così parlò Isaac Asimov (sulla vita e sulla bioetica)

«In [molte posizioni culturali contemporanee] si esprime indirettamente una grande rinuncia sistematica alla sana ambizione che è l'ambizione di essere uomo»: così diceva Giovanni Paolo II all'UNESCO nel 1980. Questo articolo su Asimov ci conforta in questa lettura.
Fonte:
CulturaCattolica.it
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"Nel corso dei tre miliardi di anni della storia della vita sulla Terra sono forse esistite venti milio­ni di specie, delle quali solo due milioni sono oggi in vita, e tra tutte queste una sola, quella dell'Homo sapiens, ha dimostrato al di là di ogni dubbio di essere capace del pensiero astratto...
...solo gli esseri umani, tra tutte le for­me di vita che conosciamo, hanno la capacità di espandere i propri sensi mediante strumenti, di vedere l'invisibile, di ascoltare l'inaudibile, di accumulare e registrare dati, di valutarne il significato, di trarne conclusioni.
Non è dunque semplicemente la vita, ma un'unica spe­cie su venti milioni ad essere più o meno consapevole del­l'universo e a cercare faticosamente di comprenderlo".

Chi cercasse nella bibliografia di Joseph Ratzinger, di Antonino Zichichi o di Marco Bersanelli la citazione sopra riportata resterebbe deluso; il testo - per molti sarà sicuramente una grande sorpresa - è dello scienziato-scrittore Isaac Asimov. Frettolosamente etichettato come agnostico irredimibile, il "Good Doctor", come veniva affettuosamente chiamato, aveva una dote riscontrabile oggi piuttosto raramente in intellettuali e scienziati: sottometteva la ragione all'esperienza. E così era libero di osservare la realtà e di trarre le sue conclusioni. Scrivendo la prefazione a un' Antologia di racconti di fantascienza (tradotta in italiano nel 1985 col titolo "Nove vite: la biologia nella fantascienza" dagli Editori Riuniti), Asimov, da buon divulgatore scientifico, esprimeva una serie di considerazioni che oggi, a vent'anni di distanza, non risultano più tanto pacifiche.

"Biologia è dunque - è la parola stessa a dircelo - la scienza della vita.
Essendo noi stessi esempi di vita, cosa potrebbe esser­ci di più importante per noi?
Non si tratta di semplice egocentrismo: non dimenti­chiamo il fatto che in uno sterminato universo formato da cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali comprendente una media di cinquanta miliardi di stelle, conosciamo un solo pianeta su cui prosperi la vita: il nostro.
Sembra improbabile che in un universo così vasto esi­sta un solo pianeta abitato, e si potrebbe sostenere (come in effetti si sostiene) che esistano parecchi posti (a milioni ad­dirittura, in ogni galassia) in cui si manifesta la vita. Ciò non di meno, siamo ancora a livello di congettura, e non abbiamo alcuna prova diretta dell'esistenza della vita al di fuori della nostra Terra".

Che uno scrittore di fantascienza metta in discussione l'esistenza degli alieni, dimostrando un patriottismo filoterrestre così spudorato, è sicuramente un altro elemento sorprendente.



"Pur limitandoci alla Terra, dobbiamo inoltre constatare che la vita si manifesta solo sulla superficie planetaria: la sua è un'esistenza fragile, possibile solo in una gamma non vastissima di condizioni ambientali... Dobbiamo dunque concludere che la vita esiste su un solo pianeta, e anche qui solo a patto di aggrapparvisi con le unghie e coi denti.
E se tutto ciò dimostrasse proprio che nel quadro del­l'universo la vita non è che un fenomeno evanescente e di importanza irrisoria, un trascurabile disturbo passeggero della materia, una nota stonata nella grande melodia del cosmo? Andiamoci piano!
Di tutte le sostanze che conosciamo, solo gli esseri vi­venti danno segno di possedere una «coscienza», di es­sere consapevoli del proprio ambiente e di essere in grado di adattarsi ad esso in modo tale da ottimizzare il proprio benessere e assicurarsi la propria sopravvivenza.
Si tratta senza alcun dubbio di una proprietà peculia­rissima: tutti gli esseri non viventi devono piegarsi ai capricci dell'ambiente, impotenti sia di fronte al disastro che alla prosperità. Solo gli esseri viventi sanno «cavarsela da soli», metaforicamente parlando. Persino gli alberi, che non possono sfuggire all'ascia, sanno gettare radici per trovare l'acqua e chiomarsi di foglie per godere del sole.
Una tale singolarità di comportamento fa sì che la qua­lità della vita possa più che compensare la propria trascu­rabilità quantitativa e la propria terrificante fragilità".


Ecco confutata la tesi della casualità, irrilevanza e noncuranza del fenomeno vita: spesso sostenuta da quelli che, facendo vista di umiltà e di distacco, parlano di quel minuscolo granellino di sabbia senza importanza, su cui vivono per caso alcuni miliardi di esseri viventi, formichine sperdute nell'immensità sconfinata dell'Universo... suvvia, un po' di dignità e di sano orgoglio terrestre!
Ma è nella seconda parte che Asimov sfodera tutto il proprio realismo: è l'uomo il vertice di quella strana esperienza che chiamiamo vita:


"Si potrebbe però obiettare che, essendo noi stessi for­me di vita, non saremmo certo imparziali nel giudicare se la capacità di adattamento della vita possa o meno controbilanciare gli inconvenienti della sua estrema fragilità e del­la sua scarsità quantitativa.
Questo è vero, ma è proprio a questo che volevamo arrivare: solo la vita può emettere questo giudizio, poiché solo la vita è dotata della consapevolezza necessaria a comprendere che si tratta di un problema. La vita è straordina­riamente importante propria perché soltanto la vita può obiettare e decidere.

Anzi, ora non stiamo più parlando semplicemente di adattamento, ma di pensiero astratto, e dunque di qualcosa di ancor più raro... Nel corso dei tre miliardi di anni della storia della vita sulla Terra sono forse esistite venti milio­ni di specie, delle quali solo due milioni sono oggi in vita, e tra tutte queste una sola, quella dell'Homo sapiens, ha dimostrato al di là di ogni dubbio di essere capace del pensiero astratto... È naturalmente chiaro che forse ci lusinghiamo soltanto di crederlo: può anche darsi che gli scimpanzé, i gorilla, gli elefanti, i delfini, le balene, i corvi, i po1ipi e chissà quale altra specie siano capaci di qualcosa di simile a quello che si può più o meno elasticamente definire «pensiero astrat­to». Se anche così fosse, non vi è tuttavia alcun dubbio che fino ad ora la capacità di pensare degli esseri umani è stata talmente superiore a quella di tutte le altre specie da porci ad un livello tale che la nostra superiorità quantita­tiva si trasforma automaticamente in superiorità qualitativa".


Ecco sistemati tutti gli animalisti estremi, per cui noi uomini saremmo solo delle "scimmie nude", ben poco diversi da altre forme di vita (Zapatero docet).


"Per fare un esempio concreto: l'Homo erectus, un no­stro progenitore dal cervello più piccolo, fu la prima spe­cie della storia della Terra a servirsi deliberatamente del fuoco. L'Homo sapiens ne fu l'erede: nessun'altra specie di vita terrestre, per quanto intelligente, ha mai usato o usa il fuoco.
Ma l'Homo sapiens non si limita a godere passivamente dei frutti del genio inventivo e innovativo dell'Homo erectus: in un batter d'occhio (geologicamente parlando) l'Ho­mo sapiens ha creato gli infiniti orpelli di quella che noi definiamo «civiltà tecnologica». Non v'è alcun dubbio che solo l'Homo sapiens abbia o abbia mai avuto (sulla Terra) la capacità di dar vita ad una tecnologia complessa".

A questo punto ecco arrivare il tema della responsabilità verso la nostra Terra, l'unico pianeta vivente conosciuto:



"Per quanto ne sappiamo, dunque, nell'immensità del­l'universo, siamo gli unici esseri ad interrogare inquieti le stelle, gli atomi e noi stessi e a cercare delle risposte.
Non è dunque terribile che tutto il sapere da noi accu­mulato, posto al servizio delle nostre passioni, ci abbia por­tati sull'orlo dell'autodistruzione? E se davvero ci distrug­geremo, non sarà forse ovvio che distruggeremo qualcosa di unico e forse insostituibile nell'universo? E se i senti­menti più nobili non bastassero, non vorremo forse lottare per mantenere noi stessi e la nostra civiltà in vita soltanto in nome del nostro amor proprio e della nostra vanità?
Se sceglieremo la strada dell'adattamento agli aspetti distruttivi della nostra tecnologia, se riusciremo a soprav­vivere, l'umanità continuerà certamente ad interrogarsi e ad imparare e ad avanzare sulla strada del sapere".


E' solo possibile immaginare con quanta entusiastica approvazione gli Editori Riuniti (casa editrice notoriamente di sinistra) abbiano sottoscritto nel 1985 le affermazioni colme di ragioni e di saggezza del nostro Buon Dottore. Mentre oggi la stessa sinistra, tra animalismo, relativizzazione della persona umana e nichilismo, fatica a riconoscersi in un approccio così umano. E' un'ulteriore prova della "mutazione antropologica" cui stiamo assistendo. Fortunatamente col desiderio di non restare ad osservare imbelli tale malefica rivoluzione.