Metamorfosi marina, di Ernest Hemingway
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In quella enciclopedia di tipi umani che è la raccolta “I quarantanove racconti” di Ernest Hemingway, al lettore avveduto non possono sfuggire alcuni capolavori di quella che vorrei definire “narrativa etica”. Brevi testi, spesso conclusi nel giro di tre o quattro pagine, in cui attraverso l’annotazione quasi cronachistica dei dialoghi che intercorrono tra i protagonisti l’autore di Fiesta e de Il vecchio e il mare costringe i suoi lettori a fare i conti con i segreti della propria coscienza, a calare la maschera di conformismo intellettuale e a prendere senza compromessi posizione su alcune delle principali e ancora oggi più dibattute questioni morali. Ne abbiamo uno straordinario esempio in “Colline come elefanti bianchi”, su cui ho scritto in un’altra occasione. Vorrei ora suggerire la lettura di un altro racconto, se possibile ancora più scabroso, almeno nei contenuti narrativi. Sul piano etico, invece, più complesso e teoretico perché cerca di rispondere a una delle domande più terribili che ogni uomo prima o poi deve farsi: dov’è il male?
Nella traduzione italiana il suo titolo suona “Metamorfosi marina” o “Mutamento al mare”: il primo è il migliore.
Come sempre in Hemingway, è dal titolo che il lettore deve iniziare a dipanare la storia che, come in tanti altri suoi testi, anche qui si svolge significativamente in un bar, oltre e al di fuori dei confini della legalità quotidiana. Il bar, però, è a Parigi e dunque il mare del titolo rimane solo nella bella abbronzatura dei due giovani protagonisti. E nel ricordo di quel che là hanno vissuto.
Era presto e non c’era nessuno nel caffè, meno il barista e quei due che erano seduti a un tavolino d’angolo. L’estate era alla fine ed essi erano entrambi abbronzati, apparivano fuori posto a Parigi. La ragazza aveva un abito di tweed, la pelle d’un bruno morbido e dorato, i capelli tagliati corti, bellissimi intorno alla fronte. L’uomo la guardava.
Come in “Colline come elefanti bianchi”, anche qui tutto il racconto, quattro pagine, si svolge nel dialogo dei due protagonisti. E anche in questo racconto i due protagonisti non hanno nome, come il giovane americano in attesa del treno per Barcellona: non è una cosa che accada spesso in Hemingway – chi non ricorda la breve vita felice di Francis Macomber, o Harry sul Kilimangiaro o il vecchio Salgado –, e quando questo accade è un segnale che l’autore manda al suo lettore affinché intuisca che quei personaggi sono simboli, rimandano a categorie di esseri umani, in definitiva si tratta di figure secondo la definizione di Auerbach. In Metamorfosi marina nessuno ha nome tranne il barista, James, che per gli avventori è insieme interlocutore e coscienza generosamente a disposizione.
Il dialogo tra i due, almeno nelle battute iniziali, è criptico, ma il lettore presto comprende che lui ha scoperto che lei lo tradisce con un’altra donna e le sta chiedendo di lasciarla.
Bene – disse l’uomo. – E con questo?
No, - disse la ragazza. – non posso.
Vuoi dire che non vuoi.
Non posso. Questo è tutto quel che voglio dire.
Lui allora minaccia, addirittura giura, di uccidere l’altra donna: “Non ti farà felice”, è il commento della ragazza. La sua intenzione è convincere il ragazzo che questo intreccio amoroso non fa diminuire il suo amore per lui. La parola che ripete più spesso è “Mi dispiace”: le dispiace che lui non la comprenda perché “quando ci comprendiamo l’un l’altro non è il caso di fingere il contrario”. Hemingway è qui maestro nel ritrarre in una battuta il relativismo morale, il soggettivismo che oggi è elevato a guida dei comportamenti.
Lui reagisce, prima con forza, poi con ironia, infine con rassegnazione: “Se si trattasse di un uomo...”. E’ il segnale della sua sconfitta. Lei dapprima risponde con un singolare sofisma: “Non dirlo. Non potrebbe trattarsi di un uomo, lo sai. Non ti fidi di me? ”. Poi chiede: “Non puoi essere bravo con me, lasciarmi andare?... Non puoi perdonarmi? Ora che sai?... Non credi che le cose che abbiamo avuto, che abbiamo fatto insieme, dovrebbe renderti più facile la comprensione?”. E’ a questo punto che la metamorfosi marina (prima etica che di genere) si rivela in tutta la sua verità e forza, nella crudezza del commento di lui:
Il vizio è un mostro dal tremendo aspetto – disse con amarezza il giovane -, che per essere così e così non ha bisogno che d’esser veduto. Allora noi così e così e alla fine ci abbracciamo –. Non ricordava le parole. – Non mi ricordo. – disse.
Lei, però, non vuole chiamarlo vizio, né perversione, come lui rincalzando propone:
“Preferirei che tu non usassi parole come quella – disse la ragazza non c’è nessun bisogno di usare parole come quella”
Come vuoi che lo chiami?
Non c’è nessun bisogno che tu lo chiami.
Quello è il suo nome
Abbiamo tutte queste cose dentro di noi. E tu dovresti saperlo abbastanza bene.
Evitare di chiamare il vizio, la perversione, con il loro nome, per convincersi che quello che si fa non è né l’uno, né l’altra. E’ questo il modo con cui cerchiamo di trasformare il male in qualcosa che è possibile fare. Una breve battuta in cui appare con sconvolgente chiarezza l’ipocrisia morale della modernità, l’effetto ultimo del relativismo etico, fondato sui nomina nuda.
Ed è a questo punto che il giovane cede, accondiscendendo alla volontà della ragazza, chiedendole di andare per poi tornare da lui a raccontargli tutto.
“Non era più lo stesso uomo – è il commento del narratore – dal momento in cui le aveva detto di andare”. Dopo che la ragazza è uscita dal caffè, il giovane si alza e si avvicina al barista: nel loro breve dialogo c’è la chiosa morale del racconto, scolpita nella brevità delle frasi che il ragazzo pronuncia a James, come a sé stesso.
Mi sento un altro, James... Tu vedi in me completamente un altro uomo... Il vizio è una cosa molto strana, James... – Guardando nello specchio vide di essere davvero un uomo completamente diverso... il giovane si vide nello specchio dietro il bar – Come ti ho detto sono un altro, James... – Guardandosi nello specchio vedeva che era proprio vero.
E la risposta della coscienza obnubilata dal male si riflette nelle parole di James che chiudono il racconto, in una generosa quanto patetica menzogna: “Avete un ottimo aspetto, signore. Dovete aver passato una bellissima estate”.
Ecco da dove viene il male: viene dalla nostra stessa coscienza, quando si fa autrice e generatrice dei valori morali. Se per Sartre l’inferno sono gli altri (1) , per Hemingway le cose stanno diversamente.
Forse esagero pensando che sia stato proprio il Vangelo ad ispirare questo racconto, almeno nel suo esito etico, ma certamente Hemingway ne indica la medesima conclusione: l’inferno è dentro ciascuno di noi, e con l’inferno il vizio e la perversione e “tutto ciò che contamina l’uomo” (2) . Al lettore lo dice il giovane che, ormai incapace di resistere e reagire, accetta che la ragazza si allontani per tradire, promettendo di ritornare:
“Oh sì – egli disse – questa è la cosa più infernale: probabilmente tornerai”. Accettare l’inferno, come scrive Calvino nella chiusa delle Città invisibili, è il modo più facile per non sembrare inferno. E’ così che agisce la coscienza dell’uomo moderno: non potremmo immaginare rappresentazione più cruda e al tempo stesso più fedele. Hemingway, come sempre, non indulge a considerazioni, non edulcora la realtà, non procede per razionalizzazioni secondarie, ci racconta un fatto e nel fatto stesso dice l’evidenza del suo significato.
L’alternativa possibile è una sola, come suggeriva un altro grande narratore del Novecento, in quel capolavoro che è La Montagna incantata, vera e propria metafora della coscienza dell’uomo moderno. Nel serrato dialogo tra Settembrini e Naphta, quando il primo chiede al secondo “Crede lei in una verità, una verità oggettiva, scientifica, la cui conquista è la legge suprema, e le cui vittorie sull’autorità costituiscono la gloriosa storia dello spirito umano?!”, e il secondo risponde così:
“Una vittoria così non può darsi, perché l’autorità è l’uomo, il suo interesse, la sua dignità, la sua salvezza, e tra essa e la verità non può darsi conflitto. Coincidono... Vero è ciò che giova all’uomo. Esso riassume la natura, in tutta la natura egli solo è creato e la natura è creata soltanto per lui. Egli è la misura delle cose e la sua salvezza, il criterio della verità. Una conoscenza teorica, che non abbia alcuna relazione pratica con l’idea della salvezza umana, è così poco interessante che è necessario negarle ogni valore di verità e non ammetterla” (3).
Per esperienza diretta, o con il ragionamento, l’uomo è in grado di comprendere che la verità del male è perfettamente conoscibile, e questo accade proprio perché il male viene da dentro l’uomo. E l’uomo sa riconoscerlo, in valore assoluto... salvo poi negarlo per quiete quanto vane ragioni di comodo.
NOTE
1. J.P. SARTRE, A porte chiuse, scena V:
GARCIN – Il bronzo... (Lo carezza). Ecco il momento. Qui c’è il bronzo, e io mi rendo conto che sono nell’inferno. Vi dico che tutto era previsto. Avevano previsto che mi sarei fermato davanti a questo caminetto, a premere con la mano questo bronzo, con tutti questi sguardi fissi su di me. Tutti questi sguardi che mi divorano... (D’improvviso si volta) Oh siete soltanto in due? Vi credevo molti di più. (Ride) E’ dunque questo l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate? Il solfo, il rogo, la graticola... buffonate! Nessun bisogno di graticole: l’inferno sono gli Altri.”
Marco, 7, 14-23:
2. In quel tempo, Gesù, chiamata di nuovo la folla, diceva loro: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola. E disse loro: “Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?”. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”.
3. T. MANN, La montagna incantata, TEA, 371.
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— Gabriele Mangiarotti (@dongabriele) Settembre 28, 2012