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La poetica Wojtyliana

Autore:
Vassallo, Luisa
Fonte:
CulturaCattolica.it

La meraviglia e lo stupore sono espressioni dell’intelligenza umana, primordiali impulsi conoscitivi che sin da Adamo hanno distinto l’uomo dal resto del Creato.
E’ da occhi sgranati che l’essere impara a distinguere il reale, è da un cuore che si lascia avvolgere dallo stupore che nascono le domande e la percezione che c’è una strada lungo la quale è possibile incontrare le risposte, dove trovare la Verità, l’amore e la sapienza del Dio Creatore.

Il poeta, tra i vari tipi umani, è sicuramente uno che più di altri fa esperienza di questo stupore, percepisce l’urgenza di non soffocare gli interrogativi che emergono dal cuore e, intuendo una possibilità di risposta, la traduce in parola.
Tra gli autori contemporanei più originali e sorprendenti in tal senso, non possiamo non citare un nome divenuto ormai caro in tutti gli angoli della terra, un nome che rievoca al tempo stesso forza e dolcezza, umiltà e nobiltà, saggezza e piccolezza: Karol Josef Wojtyla.

Fin dagli anni ‘40, il giovane poeta manifestava una grande passione per la letteratura e per la filosofia e, negli anni del pontificato, diede vita a numerose pubblicazioni d’alto valore teologico e artistico. Nei suoi componimenti Wojtyla è al tempo stesso e armonicamente poeta, teologo e filosofo a causa del suo profondo amore per la conoscenza e per via di quella caratteristica umana che ha attraversato in qualche modo ogni istante della sua vita: la meraviglia. E questo sentimento, come un impeto, diventa canto e inno, voce di un amore più grande che pervade il poeta: ‘‘In Wojtyla - disse alcuni anni fa monsignor Tadeusz Pieronek, suo ex collaboratore e grande amico – la poesia esplode ogni tanto quasi come un vulcano’’.

Forse non è così facile “catalogare” la poetica Wojtyliana ma nel dipanarsi delle parole e delle immagini che scivolano tra il pensiero e il ritmo di un cuore ora bambino, ora commosso, ora provato, risuonano gli echi e le inquietudini di altri grandi poeti come G.M. Hopkins, T.S. Eliot e Milosz.

In una delle raccolte più belle (Karol Wojtyla, Giobbe e altri inediti – dramma e sei poesie, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1982), le parole si fanno volto di un anima innamorata che percorre la sua strada, ancora lunga e incredibile, in bilico tra il timore e la gioia, la fatica e il sollievo.
Sono gli anni ‘40 e il giovane Karol si era da poco iscritto all’Università Jagellonica nella facoltà di Lettere e Filosofia. Ma ben presto le forze naziste chiusero l’Università e, per 4 anni, egli lavorò, in una cava di pietra prima e nella fabbrica chimica Solvay dopo, per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.
Anni duri, anni di lotta, di paura, di amarezza: non stupisce che nel cuore del poeta fosse necessario ricomprendere e contemplare la vicenda di uno dei personaggi biblici più provati in tutta la storia della salvezza, trovare un senso al dolore umano, una risposta alla solitudine e alla tristezza.
“Tu hai dato, Tu hai tolto” – grida Wojtyla insieme a Giobbe, “Perché mi nutri ancora?” “Che cos’è l’uomo?” “E che cos’è l’umana potenza?” “E che cos’è la felicità dell’uomo”?
Domande scarne, secche, prive di ogni interesse estetico, crude fino al patimento più atroce ma che in qualche modo contenevano il germe di quella speranza che pone il cuore in una posizione di attesa e capace di intuire che: “Così, per non lasciarmi solo in quell’ansia, spogliasti il crepuscolo d’ogni suo orrore, ed all’eternità desti il sapore del pane.”
Il sapore del pane, del pane con la “P” maiuscola, è ciò per cui le giornate hanno gusto, ciò per cui sappiamo che non siamo soli e abbandonati da un Dio lontano e ignoto, ciò per cui un gruppo di martiri di Abitene nel 304 dopo Cristo, furono uccisi perché: “ Sine dominico non possumus” cioè: “Senza la domenica non possiamo vivere”, senza trovarci la domenica per celebrare l’Eucaristia non possiamo vivere, non possiamo affrontare le difficoltà quotidiane, il dolore, lo smarrimento.
Il giovane Karol non poteva immaginare a cosa, quel gusto, l’avrebbe portato nel corso degli anni, non poteva prevedere che quell’intuizione, la fedeltà a quell’amore percepito come l’unica cosa per cui vale la pena rischiare, l’avrebbe portato a vestire i panni di Giovanni Paolo II e a invitare i fedeli di tutta la Chiesa, i giovani, i vescovi, gli uomini che vivono nei luoghi più sperduti della terra, a riassaporare quel buon pane, quella dolce compagnia che è nascosta nell’Eucarestia. Egli non poteva sapere: semplicemente continuò ad amare e così, pacatamente e tenacemente, umile fino a dire: “E Tu, ogni giorno, torni a moltiplicare la mia impotenza sottomettendo la Tua infinità al mio fallibile pensiero”, ha sconvolto il mondo.


(...)

Quando tristezza e sera si confondono
- hanno lo stesso colore -
formano insieme uno strano liquore,
e timorosamente alle mie labbra l’accosto.

Così, per non lasciarmi solo
in quell’ansia, spogliasti
il crepuscolo d’ogni suo orrore,
ed all’eternità desti il sapore del pane.

Quando dall’infinito facesti emergere il tempo
per appoggiarlo all’altra riva,
Tu già sentivi il mio lontano pianto,
ne sapevi da secoli il motivo.

Sapevi che la nostalgia
di chi una volta ha bevuto il Tuo sguardo
non si placa per un solare incanto,
ma si arrossa di sangue, come trafitta da spine.

(…)

Quando creavi i miei poveri occhi
e recavi l’abisso sulla Tua palma aperta,
pensavi a quello sguardo eterno
affascinato dall’abisso
e dicevi:
mi abbasserò, fratello
mi abbasserò, non lascerò mai soli i tuoi occhi,
e mi nasconderò dapprima nella croce,
poi, come il pane, nel grano maturo.

Allora penso:
Ti abbassi così
perché nel cosmo non restino sole
le mie spalle lontane dalla croce
ed i miei occhi pieni di nostalgia.


Le citazioni poetiche in corsivo riportate all’interno del commento e due brani sopra riportati sono alcuni brandelli della poesia “Il canto del sole inesauribile” contenuta nella raccolta “Giobbe e altri inediti”

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