La forza della tradizione: Intervista con Mario Luzi
- Curatore:
- Fonte:
Considerato da molti il maggior poeta italiano [vivente - al momento dell’intervista (N.d.R.)], Mario Luzi assomma in sé una serie di caratteristiche che lo rendono affascinante: lo sguardo profetico del vegliardo che vive un’esperienza umana profondissima, il lavoro di scavo sul linguaggio e sulla poesia, l’appartenenza alla tradizione cristiana. Lo hanno capito bene alcuni studenti universitari che, sull’esempio degli scolari medievali, sono andati a cercarlo e ad intervistarlo riconoscendo in lui una magisterialità colma di insegnamento. Il dialogo si dipana a partire da alcuni versi di Luzi sul rapporto fra tradizione e futuro, per estendersi poi ai temi della poesia (intesa come stupore della realtà e come conoscenza), al compito del cristiano nell’epoca di neopaganesimo che caratterizza l’inizio del nuovo millennio, al giudizio su problematiche attuali, come la riforma scolastica in corso. Luzi racconta poi di sé e degli inizi della propria esperienza di creazione poetica.
Domanda
A partire da un suo testo recentissimo, “Fiore nostro fiorisci ancora”, vorrei domandarle un chiarimento riguardo ai seguenti versi:
“Da qui ha inizio ancora una volta
nei secoli l’anno giubilare. Si presenta
il millennio alle mie porte a prendere sostanza di futuro
e ad apportarne alla nostra incertezza e indecisione.”
Qui sembra infatti emergere un rapporto dialogico tra tradizione e futuro, in modo che nessuno dei due può prescindere dall’altro. Qual è dunque il valore della tradizione, in particolare della tradizione letteraria, nel presente e quali poeti costituiscono la sua personale tradizione?
Luzi
La tradizione è la forza originaria che si trasmette di generazione in generazione nell’empito umano e che porta a creare, a fare, a modellare, a inventare… Questo crogiolo del tempo brucia proprio in certe istituzioni, e la Chiesa è questo per eccellenza: un prodotto della tradizione e dell’attesa del futuro. Quindi non è un deposito di vite e di esempi vissuti, ma il momento in cui tutto questo si trasforma in possibilità per il futuro. Similmente avviene per la poesia, è il momento in cui questo carico, questo retaggio di anni, di cose, di esperienze, che l’umanità riceve intrinsecamente, anche se non se ne rende conto, brucia per diventare qualche altra cosa, per diventare prospettiva, speranza per il dopo. Quindi la poesia richiede una visione unitaria del tempo: se c’è questa si valorizzano e si spiegano i veri significati di queste parole: tradizione e programma del futuro. Per quanto riguarda i poeti che hanno costituito per me una tradizione, c’è da dire che una tradizione è difficile da localizzare perché essa è una grande forza. Tuttavia per me hanno avuto una trasparenza e un apice visibile Dante, Leopardi e Omero, nell’Odissea soprattutto: ci sono alcuni testi da cui non si può prescindere. Magari uno non li ha letti, li ignora o crede di ignorarli ma ce li ha dentro di sé: inevitabilmente dunque è tradizione perché è entrata nella storia, nel ciclo dell’umanità. Io sono sicuro che i muratori là fuori non hanno letto l’Odissea, ma l’Odissea è dentro di loro. Un altro testo molto importante di questo tipo è Giobbe, nella Bibbia.
Domanda
Quindi è come se le parole di un testo, di una poesia, fossero le depositarie di questa forza vitale che spinge.
Luzi
Certo, la poesia è un po’ la depositaria dell’umano che c’è nell’umanità, perché nell’umanità c’è anche parecchio di subumano o di abumano, che oggi è anche molto intensificato. Quello che c’è di umano è il linguaggio dell’uomo nonché l’uomo che lo detiene, però non come una preziosità inerte, ma come una cosa che deve vivere. Il linguaggio è alle prese con se stesso continuamente, per uccidere quello che è morto, quello che sta morendo, quel che non ha più senso e per ripristinare lo spirito che l’ha dettato. La lettera è lo spirito, la lettera dev’essere continuamente abolita per far posto allo spirito, questo è il dramma intrinseco della creazione letteraria e la dialettica continua dello spirito stesso. Le avanguardie traducono vistosamente un processo che si verifica a tutti i livelli in tutti gli scrittori, gli artisti, gli uomini che usano la parola per dire, non per non dire, perché si usa la parola alcune volte per mentire, per deviare. No! Questo lo sanno in particolare i poeti ma anche chiunque altro, come gli uomini di chiesa, chi fa un’omelia sa che non può essere morta lettera, dev’essere spirito, parola viva, che si rivela a lui stesso mentre la dice. Questo è difficile, però ci sono uomini così. Ricordo sempre un sacerdote che mi è stato vicino e che mi dava l’impressione di vivere la parola che diceva, che si rivelava lei stessa nell’atto in cui egli la diceva nella sua profondità.
Domanda
Perdere questo stupore nei confronti della parola è l’inizio di una separazione dal rapporto tra persone, è una forma di incomunicabilità, la parola morta nega il rapporto.
Luzi
La parola usata, convenzionale, burocratica è il contrario della parola, dunque non congiunge, non annuncia, non dice quindi non è propizia alla comunicazione.
Domanda
Nella nobiltà della poesia c’è sempre un margine di astrattezza rispetto alle decisioni, alla drammaticità della vita reale. Si è mai sentito infastidito da questo scarto?
Luzi
Questo era vero quando io ancora credevo, forse implicitamente, che la poesia fosse un “a sé”, qualcosa che in se stessa esistesse, e allora cercando questa poesia potevo sentire la zavorra, il peso della vita concreta. Ma questo io ho cessato di crederlo da molto tempo e ho convertito questa divergenza in convergenza, la poesia è nelle cose, che non sono simbolo di cose, sono le cose, e io vorrei lavorare su quelle, cose concrete, cose psicologiche, cose morali, argomenti esperiti, vissuti e da vivere. Questa drammatica scissione non la sento più: è drammatica la vita ma è drammatica anche la poesia, non c’è una divaricazione. La parola che io cerco va dentro questo processo che investe tutto il tu per tu dell’uomo con le cose che lo aspettano, che deve superare o che deve assecondare. Questo margine di astrattezza che lei attribuisce forse ci sarà ancora, questo però io lo sentirei, se ci fosse, come una zona da riempire e come una mia inadempienza. (N.d.R.: rumore di martellate contro il muro provenienti da sopra il soffitto). Sono sul tetto... speriamo che non vengano giù!
Domanda
Per me il tentativo di capire che cosa sia la poesia, è maturato soprattutto frequentando un corso universitario di filosofia antica sulla “Poetica” di Aristotele. In questo testo, Aristotele afferma che il fine della poesia è “dire l’universale”, non il particolare come invece fa lo storico. Nella sua poesia percepisco un lavoro che tende verso questo universale e in fondo, anche rispetto ai miei studi di filosofia, sento la poesia più vicina se intesa in questo modo. Vorrei sapere se ritiene questo paradigma ancora valido?
Luzi
Io credo di sì. La poesia può parlare del particolare, anzi, generalmente ha per oggetto il particolare, ma è proprio esso che evoca l’universale, per esempio, quando Leopardi parla del sabato del villaggio o della quiete dopo la tempesta, parla del particolare, la gallinella: cose minime che pure hanno subito una risonanza che si sente universale, ciò che appartiene alla poesia è di avere questo alone di universalità anche nelle minime cose. Questa caratteristica della poesia è indicibile, è indefinibile, non si può circoscrivere in una formula, però è un fatto che esiste. C’è poi una poesia che ha in particolar modo per oggetto o per sfondo l’universale: per esempio i Sepolcri di Foscolo, dove si arriva nello stesso tempo a delle concrezioni di oggettività molto particolari e di senso esplicito, in un carme di respiro illimitato, universale.
È vero che nella mia poesia il tentativo di “dire l’universale” si fa esplicito. In fondo io ho avuto anche inclinazioni, predilezioni per la filosofia, che ora si sono rinnovate...
Domanda
Lei è stato amico di Enzo Paci...
Luzi
Sì, anche di Enzo Paci. Il contatto diretto con la metodologia post idealista, che avevo come esempio, fece sì che ne fossi deluso, e quindi sentii che la vera interpretazione dell’umano che io cercavo era negli scrittori, nella poesia e non nei filosofi contemporanei. Oggi c’è stata una ripresa, io sono amico di alcuni filosofi, e vedo che c’è la coscienza di avere dall’Ellade perduto molti colpi, la filosofia è diventata più un’ingegneria, per molto tempo, che una conoscenza progressiva. Leopardi disse di non considerare molto la filosofia moderna e di sentire di essere lui il filosofo; aveva ragione, perché era l’unico ad essere tornato ad una filosofia naturale. Per questo motivo, ultimamente ho dato molta importanza a un libro che si intitola “Sguardo e destino”: si tratta di un esame vissuto personalmente del travaglio della filosofia occidentale. È un tentativo anche un po’ deleterio, una dichiarazione di fallimento a tal punto dolorosa da risultare addirittura edificante. Questa filosofia nuova, Cacciari ad esempio, mi interessa. Ho divagato un po’ per dire che è esplicito nella mia poesia un fine conoscitivo, che ha anche i suoi connotati, non so se buoni o cattivi.
Domanda
Ci sentiamo dire - e personalmente intuiamo - che al momento una certa forma di decadimento e di sfiducia nella nostra cultura e tradizione occidentale da molti viene percepita come reale. Si parla di una sorta di neopaganesimo e di un conflitto in corso con certe forze che cercano di difendere questa visione. Vorremmo sapere come ha vissuta e se ha percepita come reale la preoccupazione di alcuni, anche della Chiesa, di difendersi rispetto a questo conflitto.
Luzi
Il sottofondo diciamo pagano è forte, è sempre stato molto forte. La Chiesa lo ha addomesticato varie volte, senza respingerlo, e ha lavorato per trasformarlo in devozione; è il suo compito, pensi per esempio ai papi dell’Umanesimo. Io stimo molto questo Papa, anche se teologicamente non voglio pronunciarmi, però apostolicamente sì. Egli vuole entrare nel territorio ancora chiuso o inesplorato e dove ancora c’è questo paganesimo: diciamo questa parola vaga, ma il paganesimo ha sempre continuato a lavorare e ad esserci, a proliferare fra noi. Oggi ci si accorge - contrariamente a quanto realizzato dal Papa - che si sono spesi molto tempo ed energia, in questi millenni, non tanto per edificare quanto per acconciarsi in un certo modo al potere, si sono cercate garanzie, anche in un modo auto-protettivo. E questo lo dico anche per la letteratura: anche la letteratura, in questi due millenni, ha rivelato grandi aspetti dell’umano, ma ha anche cincischiato molto; quanta poesia ha parlato di poesia, si è parlata addosso, e anche la Chiesa lo ha fatto. Questo si sente oggi, perciò questo lavoro del Papa mi pare importante: questo andare “ad gentes”, perché in questo esercizio di aperture e di generosità la Chiesa migliora se stessa. Naturalmente anche questo ha contribuito a dei contrasti interni a tutte le curie, eccetera, però la sostanza di un pontificato positivo come questo è molto desta oggi. Questa epoca che si apre effettivamente non è il millennio, però si stanno dibattendo e combattendo cose decisive per l’uomo, per l’umanità, per la specie, per la responsabilità umana. Questo cristiano che sarà all’uscita dal tunnel in cui siamo ora, probabilmente vorrà riprendere il discorso all’origine, all’insegna dell’essenziale. E questo lo dico anche per la letteratura. Quindi sarà un Cristianesimo agguerrito, ma agguerrito proprio secondo i convincimenti che la Chiesa ha tesaurizzato, lasciandoli anche poi un po’ appannare.
Domanda
In una recente intervista che è stata fatta su Panorama a un importante personaggio della cultura, è stato chiesto dal giornalista quale pericolo questi ritenesse più rischioso per i giovani: l’ideologia, l’utopia o il contemporaneo cosiddetto cinismo consumistico. È stato risposto che è l’ideologia, in quanto tende a diventare pregiudizio su tutta la realtà. Noi vorremmo chiederle cosa ne pensa, cioè qual è il vero rischio per la gioventù da un punto di vista culturale?
Luzi
L’ideologia tende a formalizzare, circoscrive e formalizza: cosa che non è nello spirito cristiano, che non dovrebbe essere nello spirito cristiano. L’ideologia è una caratteristica del potere. La Chiesa e il Vangelo devono ancora esplodere, il loro discorso è ancora nuovo, in via di facimento e di significazione. Quindi l’ideologia può essere un congelamento, un rischio di anchilosi dello spirito che c’è nel Vangelo. L’utopia è dovunque, l’utopia è trasversale, è frutto dell’esperienza umana, è un fiore. Non è un’escrescenza nociva, è un fiore, può essere e qualche volta è stata nefasta: ma insomma non circoscrive. E poi il consumismo è un accidente del tempo, che di certo non rientra nella filosofia.
Domanda
Io vorrei chiederle, dal momento che lei è anche stato docente universitario, un parere sulle nuove trasformazioni. A me sembrano voler modellare la scuola italiana, che è sempre stata qualcosa di invidiato dagli altri paesi, a modelli anglosassoni per una presunta unità culturale europea. Questo non è forse un venir meno alla grande cultura italiana e alla comunicabilità in seno all’eredità della cultura italiana?
Luzi
Sì, sono d’accordo, rispondo di sì insomma. Infatti la soggezione a modelli stranieri è una cosa sulla quale bisogna distinguere: non si può vendere, svendere tutto. Certamente abbiamo da imparare: soprattutto per quel che riguarda le facoltà scientifiche, tecniche e tecnologiche, come certamente ingegneria e già medicina neanche tanto. Certamente la sperimentazione, gli studi e la ricerca che possono fare in certi settori sono esempi che confluiscono in condizioni del tutto diverse dalle nostre, ma insomma sono invidiabili: detto questo, mi rifiuto decisamente di prendere per buono tutto quello che loro fanno. Sono stato in quella commissione, poi non potei partecipare perché ebbi un infortunio: però scrissi un paio di lettere a Berlinguer dicendo - allora si parlava delle scuole superiori - “Non disfate il liceo classico”. Si obietterà che esso si è costituito in questa forma in epoca fascista, ma che cosa mi importa? È una cosa felicemente riuscita; certamente qualche aggiustamento anche lì va fatto, ma da qui a disfarlo ce ne passa. Ho paura che abbiano veramente confuse le acque: c’è qualcosa di vecchio che va certamente smobilitato, però bisogna rimanere fermi in certe cose che perdipiù vengono o venivano a loro volta prese a modello. È un lavoro che non conosco, non lo ho seguito, però da certi episodi vedo che c’è qualche rischio. Di Mauro dovrebbe essere una persona seria, lui credo non incorra negli errori di Berlinguer. Anche Berlinguer è una persona seria, era stato persino rettore a Siena e quindi la scuola la conosceva, insomma la conosce, certe sue idee poi però derivano dal fatto che si è lasciato prendere la mano dai provveditori. Il risultato è che ora è tutto da rifare.
Domanda
Parlando con un docente di letteratura italiana della nostra facoltà, siamo stati consigliati di andare cauti nello scrivere versi quando si ha la nostra età. Questo mi spinge a chiederle come lei ha iniziato a scrivere poesia, come è venuto prendendo coscienza del ruolo che ha nella sua vita e come consiglia a noi di fare per capire meglio.
Luzi
Qui è già difficile dare consigli, comunque io vi rispondo narrativamente. Anch’io come tutti ho avuto da bambino la mia precocità: ho scritto cose che volevano essere poesie, anche se non sapevo neppure cosa fosse una poesia. Ma avevo bisogno di scrivere qualcosa ogni tanto, perché la vita mi sembrava già allora più importante se riuscivo a scrivere, acquistava valore dall’essere scritta. Significava avere un dopo: un momento bello è più bello se io lo posso prolungare attraverso la scrittura. Poi quando sono stato al ginnasio o al liceo mi attraevano nei libri e nelle antologie alcuni poeti, moderni soprattutto, che erano come curiosità proibite e sentivo che c’era un modo diverso di considerare il linguaggio. Questo lo sentivo oscuramente e già avevo questo interesse, questa attrattiva, che però non era esclusiva perché io al liceo avevo interesse anche per la filosofia, soprattutto per la filosofia greca. Naturalmente anche questa filosofia che io vagheggiavo era una filosofia molto poetica: quando mi accorsi che la poesia non c’entrava nulla rimasi deluso. Io ho avuto il senso che sarebbe diventato il mio stato elettivo quando a quell’età ho scritto “La Barca”, cioè quando mi resi conto definitivamente che non sarei andato avanti nello studio della filosofia. Infatti incominciai a sentire che nella letteratura c’era una attendibilità conoscitiva persino maggiore riguardo all’uomo moderno: avevo letto o incominciavo a leggere Joyce, Orwell, Proust e altri. Scrissi il mio primo libretto, “La Barca”, tutto in pochi mesi: quanto pubblicato è minimo come dimensioni, mentre la raccolta manoscritta era molto formosa, perché scrivevo molto. Poi la ridussi al minimo per pubblicarla, la amputai: lo feci perché volevo testimoniare me stesso più attraverso la significatività che attraverso la bellezza. Allora sentii che avevo ingranato, cioè che questa cosa era entrata dentro di me, dove io volevo essere raggiunto dal pensiero e dalla verità, da una verità ipotetica naturalmente. Ho capito che c’era una collusione profonda tra me come uomo di natura, come ragazzo, e questo lavoro che stavo facendo. Capii questo, e allora mi dissi: “Facciamo questo perché questo è mio” - questo è mio finché dura, infatti fu una stagione, neanche un anno ma scrissi molto. Qualche volta qualcuno ritrova delle cose scritte allora: “Ma perché le ho lasciate fuori?”, mi domando. Perché avevo voluto essenzializzare e non manifestare. Uno deve sentire questo, su questo non c’è nessuna considerazione esterna che possa giovare, questo uno lo deve sentire: sono nel mio centro quando tocco qualcosa che non avrebbe neppure cittadinanza o presenza se non fosse detta, raggiunta da queste parole. Questo io lo sentivo intensamente: è un lavoro - no, non è un lavoro, questa è un’attenzione che uno deve avere.