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Jonesco: insofferente e ribelle in un mondo di rinoceronti

Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it
Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea

Eugène Jonesco, il grande drammaturgo - colui che, assieme a Bec­ket, “è” il teatro della seconda metà del XX secolo - ha concluso la propria ricerca intermittente e, il 28 mar­zo 1994, è andato a vedere Dio a faccia a faccia. Chi, il 29 marzo di quell’anno, avesse sfogliato i giornali, si sarebbe imbattuto nei soliti cocco­drilli: opere, vita, morte e nessun miracolo. La grande stampa d’o­pinione, sempre attenta a non disturbare la “preghiera del mattino” del lettore borghese, ha accuratamente evitato di citare, fra le opere di Jonesco, il Maximi­lien Kolbe (musicato da Dominique Probst e rappresentato in prima mondia­le, per la regia di Krzysztof Zanussi, al Meeting di Rimini il 20 agosto 1988). Kolbe, ovvero l’incontro col miracolo della santità cristiana: questo il fatto che segna la piena maturità dello scrittore.
A dir il vero, qualcosa di straordina­rio era già accaduto al giovane Jonesco, com’egli confida a Franca Zambonini (“Famiglia cristiana”, n. 33/1988): “Ero sui diciott’anni e, sì, ho avuto un mo­mento d’illuminazione. Vivevo in Ro­mania, un pomeriggio quieto mi sembrò come se il mondo si schiarisse in una luce così forte da accendere perfino la biancheria stesa ad asciugare in cortile. Fu un’eternità racchiusa in pochi istan­ti, mi sembrò che Dio mi tenesse per mano e mi dicesse: “Non avere mai paura”. L’illuminazione di un attimo, un barbaglio, poi un bel ricordo. Ma i ricordi non vincono la paura. Paura di che? “Del nulla. Della morte. Di non conoscere Dio. Di essere ignorato da Dio. Potrei dire con Lamartine: Un solo Essere mi manca. Lo inseguo... Il so­prannaturale mi si presenta a volte in forme molto semplici e molto naturali, come se camminassi con un amico ac­canto”. Ma è un “come se”, non una realtà. Lui, Dio, è assente: per questo, tutto diviene privo di senso. “Teatro dell’Assenza, teatro dell’Assurdo”“.
L’avventura era iniziata nel 1950, a Parigi, dove il giovane scrittore rumeno si era rifugiato negli anni della II guerra mondiale: lì, in un teatrino, tra l’indi­gnato stupore del pubblico, era stata rappresentata l’Anticommedia La Can­tatrice calva (dal 16 febbraio 1957 è stata riproposta ininterrottamente al teatro Huchette: ha superato le dodicimila repliche!). I primi spettatori si erano sentiti presi in giro; ma poi si cominciò a capire: Jone­sco metteva alla berlina il borghesismo pieno (vuoto) di opinioni senza verità, di chiacchiere e vaniloqui pseudofiloso­fici, di un assurdo linguaggio, zeppo di frasi fatte e luoghi comuni. E faceva tutto questo con malinconica comicità, come egli confesserà: “L’umorismo può essere la lucidità della disperazione. Io sono un uomo angosciato”.
Siamo evidentemente nella strada maestra di quell’Umorismo che, sulla scia di Pirandello e Chaplin, corrode impla­cabilmente l’utopia progressista, superfi­cialmente ottimistica dei tempi moderni. Chi non adora l’idolo del Progresso viene stigmatizzato come reazionario. Anche Jonesco ha dovuto difendersi da que­st’accusa: “Io non sono mai stato un reazionario, semplicemente ho sempre odiato le ideologie. Nessuna ideologia ha mai consolato un amore perduto, un’a­micizia tradita, una vecchiaia solitaria. Mai. Non sono per nessuna ideologia, per nessuna politica. Io sono per la fede”. E questo fin da Le sedie (1952), che “è un’opera sul vuoto ontologico. Il vecchio e la vecchia - i protagonisti - sono due persone che hanno smarrito il cammino umano verso Dio e che ora lo ricercano”. Il rinoceronte (1960) mostra la metamor­fosi dell’umanità, il suo imbestiamento che discende dall’acritico inchinarsi al nuovo imperativo: “Bisogna seguire il proprio tempo”! Così tutti i personaggi, aderendo ai vari volti dell’ideologia bor­ghese (scetticismo, razionalismo, relati­vismo morale, edonismo...), si mutano in rinoceronti. Solo il protagonista Beren­ger - l’uomo cosciente della propria fragi­lità e colmo di vertiginose domande - resiste.
Jonesco ha continuato a cercare, nel fango del reale, l’oro della Verità (Il re muore, La fame e la sete); il suo diario, uscito nel 1989 - La ricerca intermittente - ben documenta l’attesa di Dio.
Agosto ’86: “Egli può ancora venire. Io l’aspetto”; e più avanti: “Se Gesù esiste, Dio c’è. Siccome Gesù esiste, Suo padre dev’esserci”. Settembre ’86: “Dio inaccessibile. Ma, attraverso Gesù, ac­cessibile. Per questo Lui, l’indicibile, si è fatto Gesù, si è dato un nome: Gesù”. Agosto ’87: Jonesco incontra il popolo del Meeting di Comunione e liberazione (e chi scrive era presente): “In mezzo a quella folla di giovani scoprii una frater­nità e una spiritualità oggi così rare. Ho parlato loro, ho visto che mi amavano”. Questa volta non è un’illuminazione o un bel ricordo, ma la scoperta di una realtà presente, visibile e tangibile.
L’anno dopo torna al Meeting col suo Kolbe. E confessa: “Il filosofo Adorno ha detto che dopo Auschwitz l’uomo non può più essere lo stesso, la filosofia deve necessariamente cambiare. Kolbe è la risposta: non c’è che la fede, la carità e la preghiera che ci possono sostenere nella nostra esistenza”. E c’è la Chiesa, purché non s’annienti nella storia “per paura di essere al di fuori della storia”. Una Chiesa ridotta oggi a minoranza, a resto d’Israele, ma ben cosciente dell’“oro” che porta in grembo, e in cammino per consegnarlo alla sete di ogni cuore.

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