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In attesa dello sposo

Autore:
Roda, Anna
Fonte:
CulturaCattolica.it ©



Prove per un “Cantico dei Cantici”

Fiorisce il mio giardino

*Dilaghi senza fonte né sorgente
mare onde e rive lontane
solo il bagliore della vela
brezza e cielo
quieto caldo della sera.
Canta nel vento la melodia
si scioglie la tela bianca
si scioglie la vita mia.

*Vana non può essere di tante lacrime l’attesa
anche se non trova approdo.
Non scorge confine
ma solo una stazione chiedo
La vita qui si spezza e più buona diventa
le notti insonni fino all’alba
solo canto lieve senza parole
solo melodia a fior di labbra
Lieve carezza nella notte.

*Non entri nel recinto delle attese
trattieni il passo sulla soglia
mia sofferenza
mio dolore.
Di aranci e di limoni profumo lieve
ma l’anima s’attarda e geme,
di nascosto seme
fiorisce il mio giardino.

Se questo non è il tempo, quando?

*Brilla di luce nuova
la forsithya nella stanza
epifania d’attesa?
Soglia che si apre e oltre attende
quando richiamerai anima e canto?

*Se busso rispondi ma non apri
ancora l’anima t’invoca
un’eco ritorna nei miei sospiri.
Pioggia d’inverno ora ch’è estate,
perimetro oltre la porta chiuso
stipite segnato a sangue
in questo oscuro bere l’anima grida.

*La geografia del palmo non si consuma
non esaurisce rotte
mari coste
sempre terra misteriosa
incognita all’altro sole
rasento le sue rive
bordeggio a stento insenature
possibile?
La tua casa è oltre il confine

*Sposo di tante lacrime
quando il sorriso mio risplenderà sul volto?
Alla sponda rimango
lontano il vento salmastro
asciuga le labbra
assottiglia le mani
linea improvvisa dell’onda
bussola dell’anima
segna occidente e segue il tramonto
svanisce l’effimera apparenza
solo tu rimani
trasfigurata attesa del tuo nome.

*Vivo nell’attesa
cerco il disvelarsi del disegno
delle trame che affiorano nell’ordito stretto
lo sguardo non mi neghi
sazi l’anima silente.
Assorta nella pace
rapita nel mistero.
Se questo non è il tempo
quando?

Ancora vieni a farmi bere

*Lascia che diventi volto mio
il tuo
non vane parole rubate al vento
tolte ai fiati che si dividono a stento.
Attese senza ritorno
e mari senza sponde
occhiate di sfuggita
solo lo sguardo tuo in me sconfina.

*Ritorna ancora la pacata tenerezza degli addii
non canta la mia voce se non nelle tue note.
Non vibra la cassa armonica del cuore
se non nelle tue carezze e nelle tue parole
Questa tremante attesa risorge nel tuo nome
in te sposo trovato
non tradito amante di una notte.

*Alzo un canto nuovo
nel continuo svolgersi del tempo
solo tu ritornello
punto fermo
chiave della volta
stella in cielo aperto.
Solo tu ritorni a dilagare
ancora vieni a farmi bere.

IL NAUFRAGIO NECESSARIO

d’amore contenute nel Cantico dei Cantici, questa pronunciata dalla protagonista ci sembra la più riassuntiva, quella che tutto racchiude e convoglia verso un traguardo di possesso amoroso, ovvero il pieno compimento di ogni vera esperienza d’affetto. La delicata ed intensa musicalità del verso ci aiuta ad evocare le infinite suggestioni del poema sacro, che rimane ad oggi uno dei più bei canti d’amore di tutti i tempi. Il suo timbro è di tale intensa passionalità che obbliga il lettore a purificare il proprio sguardo prima di accostarvisi (pena il totale fraintendimento), e ad interrogare con semplicità e serietà il centro della propria esperienza di bene. In questo cammino di sublimazione, laddove il Cantico è stato visto ora come esaltazione incondizionata della passione umana, ora come allegoria dell’Unione Mistica, in questa non contraddittoria e non distonica compresenza, può sbocciare per grazia l’anticipo di ciò che sarà definitivo, cioè la contemplazione dell’amore che move il sole e l’altre stelle. Sembrerà provocatorio e paradossale, ma possiamo intuire come lo stigma profondo del Cantico sia l’amore sublimato, cioè verginale, vissuto dai due protagonisti. Così la tensione che ci protende verso l’unità con tutto ciò che in natura è desiderabile, può diventare essa stessa in noi visione e adorazione della presenza amata.

Anche nel suo vertice di contemplazione, il Cantico rimane però una bevanda inebriante, un’alchimia di gesti e di profumi scandita da parole, e molto spesso dobbiamo aggrapparci al pur sottilissimo velo della metafora per mantenere il testo quale esso è: un libro della sapienza (dell’amore), il “cantico sublime”, il “cantico per eccellenza”, il Cantico dei Cantici.

Se il Cantico è archetipo del sentimento non succube di se stesso, se è inesauribile e cristallina sorgente, a tale fonte si abbevera la poesia di Anna Maria Roda. A differenza delle tre voci del Cantico (lui, lei, il coro), qui è una sola voce che dà forma al dramma, in un monologo-dialogo tutto interiore che evoca, con immagini di fortissimo impatto visivo, la presenza dell’amato interlocutore. “In attesa dello sposo” ci porta, in una successione di tre quadri poetici, dentro il mistero del naufragio di leopardiana memoria, laddove l’abbandono di sé è pieno ritrovamento, pienezza di un’anima finalmente dissetata. La poesia ha la forma di immagini che si susseguono a ritmo di respiro, e il loro legarsi in pura essenzialità non ammette neanche l’intralcio della normale punteggiatura. L’anima parte così per il suo viaggio, la traversata fra le onde di un mare mai calmo, di cui non si conosce ancora il punto di stabile approdo. Il tempo dell’anima, quello sì è stabilito: è il tempo della fioritura, quando il giardino concede spazio e speranza ai frutti nuovi. Lo “Sposo di tante lacrime”, la “trasfigurata attesa del tuo nome” rivela la tanto agognata fisionomia, proprio nel momento in cui (secondo quadro) il dubbio allunga i suoi tentacoli, e della vita giungono soltanto echi lontani, come di luoghi vissuti da altre persone, una separazione o muro di cinta al di là del quale c’è solo pianto e stridore di denti. Nell’attesa drammatica che possa affiorare la trama del destino, erompe come squarcio nella notte il grido: “Se questo non è il tempo quando?”. Lo sgomento gettato dalla domanda apre lo spazio dell’epilogo, il ritrovamento del volto e dello sguardo. Non un oggetto bramato e finalmente posseduto, bensì la prospettiva senza limite dell’occhio che sconfina, fino al punto in cui l’anima, finalmente libera, leva in alto la sua ritrovata melodia. L’immagine del dilagare che chiude l’opera ci riporta allo stupore dell’inizio, a quel “Dilaghi senza fonte né sorgente” da cui siamo invasi: è il necessario naufragio, l’apparente perdita di sé, che è la partenza del viaggio di ogni cuore.

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