Il sole e Cristo

Proposta di lettura de L'alba meridionale di Pier Paolo Pasolini
Autore:
Brigandì, Ottavio
Fonte:
CulturaCattolica.it
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“Sebbene la mia visione del mondo sia religiosa, non credo alla divinità di Cristo. Ho fatto un film in cui si esprime, attraverso un personaggio, l’intera mia nostalgia del mitico, dell’epico, del tragico. La storia di Cristo è fatta da duemila anni di interpretazione cristiana. Tra la realtà storica e me si è creato lo spessore del mito. Da qui il carattere composito della mia ricostruzione, l’amalgama dei riferimenti culturali e plastici, la trasposizione”.
Così Pasolini su Il Vangelo secondo Matteo - di cui il poema L’alba meridionale (da Poesia in forma di rosa) costituisce il “diario di viaggio” in Israele prima, nell’’Italia meridionale poi, alla ricerca di scenari e soggetti per le riprese. Essendo il testo straordinariamente ricco di temi (politica, attualità, rapporto con religione e l’arte, biografia), s’intende qui darne soltanto uno spunto.
Ad esempio, è possibile instaurare un rapporto fra il tentativo di rappresentare Cristo e l’onnipresente sole mediterraneo, che sta sopra terre e popoli come sul regista “lo spessore del mito” di Cristo. Pur non coincidendo mai, i due astri procedono nel pellegrinaggio paralleli e con lo stesso occhio tentano d’essere compresi.
Attraverso effetti, senza solennità, tutto teso a sdrammatizzare, il tema del sole apre come per diffusione, sclerotizzando il paesaggio e privandolo del suo cronico dolore: passioni, rivendicazioni, nomi densi d’attualità e storia - uno per tutti: Gerusalemme - sembrano dolcemente scolorire nell’arsura. Ogni venir meno della prigionia di luce, però, scoperchia la realtà vera di città “religiose” esteriormente, ma carnali e corrotte se di sera o nei vicoli: luoghi dove ogni pia fede è merce. Ed è proprio in ombra che si ha una cognizione di sé, isolata come il verso che la supporta (v. 50):



Ma mi mancava sempre, sempre, qualcosa.


dove nella primo di tanti attimi l’estetica positiva della ripresa, nutrita dalla luce e spavalda nei suoi cerchi concentrici, sembra incontrare un limite focale. Questo si fa palese in un’intera strofa (vv. 135-152):


Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto
in ogni mio intuire. Ed è volgare,
questo non essere completo, è volgare,
mai fu così volgare come in quest’ansia,
questo “non avere Cristo” - una faccia
che sia strumento di un lavoro non tutto
perduto nel puro intuire in solitudine,
amore con se stessi senza altro interesse
che l’amore, lo stile, quello che confonde
il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico,
- sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici,
sulle casupole del Meridione - col sole
della pellicola, pastoso sgranato grigio,
biancore da macero, e controtipato, controtipato,
- il sole sublime che sta nella memoria,
con altrettanta fisicità che nell’ora
in cui è alto, e va nel cielo, verso
interminabili tramonti di paesi miseri…


La presa d’atto è dunque tagliente: manca, causando duraturo scompenso, la capacità di catturare i tratti del volto di Cristo ad un operare umano che, come negli accorgimenti di un montaggio ingenuo, sta già confondendo il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico con l’artificio che ha impressionato pellicola e memoria. Lo stile - sforzo onnicomprensivo, baluardo a fronte della rovina affettiva, baricentro emozionale della strofa e dell’intero poema, solitario e perciò carico di tristezza desiderosa d’espressione - rilancia subito l’impeto, spingendo l’artista a razzolare ancora nella polvere. Ma tutto l’impianto di linguaggio, sublimato e dolentemente lasco di pulsioni, sembra celare altro: forse una concreta dinamica umana di seduzione tradita. Se infatti “la vera sensualità è brama di verità per il suo oggetto” [GOMEZ DÁVILA], si paragoni allora quel non avere Cristo all’assenza, per così dire “mentale”, di un amato che è stato a lungo reso oggetto di desiderio; non quindi lontananza “fisica”, ma unicità personale (Sei insostituibile dirà della madre) tale da non concepire, in mancanza, che altri ti possa sfiorare. A un passo dall’innamoramento, la faccia di Cristo prende corpo dentro questa punta di eccellenza e stima non surrogabili. Consciamente rassicurante dunque, il passaggio dal doloroso discorrere su Cristo ai più aperti scenari mediterranei è la confusione di stile: così come il transito da un sole vero ad altri soli, nobili ma pur sempre artificiali (quelli di cui il regista si serve).
Ben lungi dall’essere ideologico, il procedimento si delinea come naturale distogliersi dello sguardo da una fonte troppo intensa, per l’osservazione della quale perciò non si dispone di adeguato filtro tecnico. Non resta che il reiterarsi del controtipaggio - procedimento di riproduzione in cui però il fotogramma si fa sempre più indistinto e nebbioso: pastoso sgranato grigio, / biancore da macero. Ma proprio nel minimo ripiegarsi dello stile termina il declinarsi umano e naturale della divinità, un cristianesimo adulto trasmesso un tempo al bambino per hominem (come altri punti della poesia accennano), ma reso da un solitario intuire come demente; allo stesso modo in cui l’astro eccelso, ridiviene pura componente sensibile sopra uno schiavo Mediterraneo.


Il film l’ho girato - e con Cristo!
L’ho trovato, Cristo, l’ho rappresentato!
E ora il non trovarlo, il non rappresentarlo
non è che una torbida, ingenua guerra
di sentimenti entrati nella mia anima
da un mondo non mio - che quindi mi aliena (vv 202-7).


Qualunque sia il rapporto di Pasolini col sacro (naturale e incarnato), la sparizione della componente umana prende la fisionomia della solitudine.

Vedi: Pasolini, Opere, Mondadori (nella Cronologia per la citazione iniziale); Gomez Dàvila, In margine ad un testo implicito.