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"Il Gattopardo" 11 - La morte di don Fabrizio

Fonte:
CulturaCattolica.it

Alle sei di mattina la carrozza riporta a casa la famiglia Salina, ma don Fabrizio preferisce prendere un po’ d’aria rientrando a piedi e volgendo lo sguardo al cielo pieno di stelle.

Da una viuzza traversa intravide la parte orientale del cielo, al di sopra del mare. Venere stava lì, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele, aspettava sempre Don Fabrizio alle sue uscite mattutine, a Donnafugata prima della caccia, adesso dopo il ballo. Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza? (17)
Alla melanconia che l’ha accompagnato nel corso della festa, nel cuore del protagonista subentra un sentimento diverso: la speranza di un conforto che può venire dal cielo. Il tema della morte dominante tutto il romanzo diviene dominante nella cruda immagine degli animali macellati; le stelle che il principe per tutta la vita aveva studiato e amato, divengono ora l’immagine di un riferimento costante, la speranza di qualche cosa che l’attende (18), di una rivelazione alla quale il suo cuore ha sempre anelato cercandola nel bel volto di una donna come nell’immensità del cielo stellato.

Nel cap. VII il racconto si apre, vent’anni dopo, nel luglio del 1883, sui presagi sempre più frequenti che il Principe percepisce della morte imminente.
Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la
facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, come i granellini si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza
soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d'intensa attività, di grande
attenzione, questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla piú breve occasione di silenzio o di introspezione: come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una pendola s'impongono quando tutto il resto tace; ed allora ci rendono sicuri che essi sono sempre stati lí, vigili, anche quando non li udivamo.
In tutti gli altri momenti gli era sempre bastato un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli
di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua mente e lo lasciavano per
sempre. La sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere. Anzi, questa percettibile perdita
di vitalità era la prova, la condizione, per cosí dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare
spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interni, essa non era per nulla sgradevole: era quella di
un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi altrove
di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma piú larga. Quei granellini di sabbia non andavano
perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per cementare una mole piú duratura
(19).
E nel viaggio di ritorno da Napoli per il consulto da uno specialista, la situazione si aggrava e viene portato in un albergo a Palermo, perché troppo debole per proseguire.

Il momento è giunto. Le figlie, Tancredi e i nipoti lo circondano con affetto e apprensione. Viene chiamato un sacerdote per confessarlo, ma il protagonista scopre di avere ben poco da dire, non perché rinneghi le colpe commesse, ma perché aveva sempre saputo che era tutta la vita ad essere colpevole...e che vi è un solo peccato vero, quello originale, riconosciuto e ammesso davanti a Chevalley: pensarsi il sale della terra, credersi perfetti nella propria immobilità, simili a dei, vanesi e ciechi.

Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici…Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto un totale di due...tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto, settant’anni. Doveva avere avuto un’altra sincope perchè si accorse a un tratto di essere disteso sul letto. Qualcuno gli teneva il polso: dalla finestra il riflesso spietato del mare lo accecava.. Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto. Era lei la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo; strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad essere posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. (20)
All’ultima stazione della sua vita il tempo dell’attesa era finito e l’immagine misteriosa di bellezza e perfezione che per tutta la vita egli aveva cercato nelle traiettorie degli astri e nel cielo stellato si svelava definitivamente a lui per portarlo nelle regioni di perenne certezza sempre invocate.
E il fragore del mare si placò del tutto.

Nell’ultimo capitolo ambientato nel 1910 le tre figlie Salina settantenni, vivono assieme fra incomprensioni, amari rimpianti, privilegi cancellati, prigioniere del passato e incapaci di mutare, in un’età in cui ogni cosa è ormai mutata.

Così si conclude il romanzo di Tomasi di Lampedusa che ha affidato all’unica opera della sua vita la descrizione del dramma del protagonista e della generazione vissuta fra l’800 e il ’900, della sua terra negli anni della unificazione, ma prima di tutto del proprio dramma: la sproporzione incolmabile fra la percezione negativa della realtà, la non volontà di agire e l’attesa di qualcosa o di qualcuno che sveli il senso della vita e plachi l’attesa di felicità dell’uomo.

NOTE
17) Il Gattopardo, pag.232
18) Brasioli, Carenzi, Acerbi, I libri di Ulisse ATLAS, 2001, pag. 262.
19) op. cit., pagg. 235, 236.
20) op.cit., pagg.243, 245, 246.

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