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Giuseppe Pontiggia, scrittore

Autore:
Pugni, Paolo
Fonte:
CulturaCattolica.it ©



Più che il titolo di scrittore Giuseppe Pontiggia meriterebbe quello di cultore dell’uomo, termine forse meno lineare di “antropologo”, ma anche più affascinante e meno tecnico. Non che Pontiggia non fosse uno scrittore, tutt’altro, e dei più raffinati: il fatto è che, oltre ad una smisurata passione per il linguaggio – che può essere paragonato a quello di J.R.R.Tolkien - Pontiggia dimostra nei suoi scritti una decisa attenzione allo svelamento di ciò che si nasconde nell’animo umano.
La trama dei suoi romanzi, infatti, non è che un tenue filo adesivo, che serve a tenere incollati al lento e, per certi versi, irrilevante dipanarsi di una vicenda, splendidi e tremendi quadri di figure che si aggirano per le pagine del libro. La qualità principale dello scrittore comasco, scomparso il 27 giugno del 2003, stava nel guardare con disincanto, spesso oscurato da pessimismo, le passioni che si agitano in ognuno di noi e nel descriverle con una precisione di linguaggio tanto rara quanto efficace, al punto che, dalla lettura dei suoi romanzi e dei suoi saggi, si esce feriti e più maturi. Pontiggia non lesina né crudezza né misericordia con i suoi personaggi: non si limita a denudarne l’animo abbandonandoli laceri e sanguinanti, trascinati e derisi dai loro vizi e appesi ad un mondo che assomiglia molto ad un inferno terrestre; non si accontenta di rivoltarne i pensieri, grazie ad una scrittura tagliente fino al midollo, e di lasciarli esposti come opere di una agghiacciante povertà umana; sa anche lenire le loro ferite versando il balsamo della comprensione. In fin dei conti siamo tutti peccatori e la meschinità si nasconde nell’animo di ognuno di noi: concetto questo che, se appare crudele, in realtà – e proprio per questo - non è nient’altro che la verità: e se la guerra, che ognuno di noi combatte quotidianamente, come suggerisce Giobbe - militia est vita hominis super terram - è proprio contro i nostri limiti, non dobbiamo spaventarci che anche altri se ne siano accorti, quanto piuttosto gioire e ringraziare per l’aiuto che ci viene offerto.
Giuseppe Pontiggia, nato a Como nel 1934, a diciassette anni è costretto ad impiegarsi in banca per necessità economiche sopravvenute dopo la scomparsa del padre: ma la sua passione è la letteratura, alla quale potrà dedicarsi con maggiore impegno a partire dal 1961, quando inizierà ad insegnare. Pontiggia nel frattempo ha già pubblicato il suo primo romanzo. La morte in banca, che, se gli è valso l’interesse di Elio Vittorini e gli ha aperto la strada di scrittore, testimonia fin dal titolo il taglio con cui Giuseppe guarda al mondo: uno sguardo serotino, che potremmo anche descrivere come disincantato, cupo, crudo, cinico e così via. Ciò che intendo dire è che Pontiggia predilige sicuramente la metà mezza vuota del famoso bicchiere, e sembra essere deluso e tradito dagli uomini intorno a lui: i suoi romanzi sono attraversati da persone incapaci di fedeltà, ad esempio, che consumano tradimenti coniugali, più per noia e per riscoprire un apparente senso di vitalità, che non per una passionalità esagerata. Se lo scrittore sembra sconfortato dall’umanità che lo circonda, se ne difende rivelandone la meschinità e provocando i lettori: il valore aggiunto dei libri di Pontiggia sta, a mio parere, proprio in questa spinta fortissima all’esame di coscienza che chiunque si accosti ad essi è costretto a fare. L’uso della parola “costretto” non va considerata una esagerazione: non è altro che la diretta conseguenza del testo che sembra indirizzarsi personalmente a ciascuno di noi. Difficile razionalizzare il perché, molto più semplice intuirlo: vale a dire scendere nelle profondità del linguaggio per risalire in superficie escoriati forse, ma di sicuro più consapevoli.
Nei suoi romanzi Pontiggia attinge di continuo alla sua biografia: non però in modo diretto, ma riflesso: così come ha spesso teorizzato, gettando a volte nello sconforto chi lo avvicinava per ottenere quell’ incoraggiamento che pretendeva di meritare, la sua vita non è un romanzo e non si è certo preso la briga di raccontarla. Ciò che ha fatto è osservarla, per estrarre dalla sua esperienza diretta situazioni, personaggi, tratteggi, frasi, che lo hanno guidato a dipingere personaggi memorabili, nel bene e nel male.
Il migliore dei suoi romanzi resta, e questo più che romanzo è quasi melodramma, l’ultimo: quel Nati due volte dal quale è stato liberamente tratto il film Le chiavi di casa. Il romanzo racchiude quadri della difficile – e proprio per questo capace di arricchire - situazione di una famiglia il cui figlio maggiore soffre di grave handicap. E questa è proprio la situazione reale della famiglia Pontiggia. Si potrebbe veramente affermare che questo è il suo canto del cigno: accanto alla solita cura per il linguaggio - forse ancora più puro -, intessuto negli spaccati della travagliata vita della voce narrante e dei suoi cari, emergente dall’apparente disperazione che imbrunisce tutte le pagine, senza soffocare la luce, radioso nel finale, spicca un inconsueto senso di speranza, una tenerezza morbida e lieve, una riscoperta del senso vero della vita, un’elegia della carità e della spiritualità, che irradia una luce nuova su tutta l’opera di Pontiggia.
L’handicap, in questo romanzo, serve all’autore da lente di ingrandimento per osservare le finzioni della vita di oggi. La minorazione fisica interroga chiunque ottenendo risposte le più disparate: amore, disgusto, terrore, repulsione, violenza, pietismo, dolcezza. Dinnanzi ad essa non si può comunque rimanere indifferenti, perché anche l’indifferenza in questo caso sarebbe prendere posizione. Pontiggia dimostra come l’handicap possa svelare i pensieri dei cuori, possa fungere da catalizzatore per esaltare le tendenze comportamentali delle persone. La galleria di ritratti che lo scrittore pennella è atrocemente concreta e Pontiggia ha il pregio di descriverci le tante miserie e le poche ricchezze di questo bestiario umano con distacco, senza pretendere di emettere giudizi, ma limitandosi a fotografare senza filtri il disvelarsi delle coscienze. Lo fa con un uso affascinante del linguaggio; due sono infatti i pregi di questo libro: l’atrocità dell’argomento, che costringe il lettore ad una salubre riflessione sulla propria vita, e l’accuratezza della scrittura che, se da un lato produce piacere di per sé, dall’altro consente una discesa ancora più profonda non solo nella personalità dei personaggi in scena, ma nell’umanità stessa. Pontiggia si dimostra un coscienzioso osservatore della natura umana e in particolare dell’uso che essa fa del linguaggio, spesso utilizzato come strumento per dissimulare i propri sentimenti. L’abilità dell’autore sta nel rivelare questa manipolazione chiosando, con battute tanto brevi quanto sagaci, ogni affermazione, luogo comune, battuta dei dialoghi per portare alla superficie il reale atteggiamento del soggetto.
Le pagine sulla preghiera e quelle sul male sono molto più mistiche e nitide che in autori classificati come “religiosi”, e le riflessioni in prima persona, che compaiono per la prima volta nella sua produzione romanzesca e finiscono con il prevalere rispetto alla narrazione, accompagnano il lettore alla scoperta di una dimensione interiore spesso inascoltata.
Il Pontiggia dei saggi è, per certi versi, ancora più caustico ed efficace: svincolato dai ritmi e dalle regole del romanzo, l’autore è libero di affondare nei vizi dell’umanità, rivelando una sensibilità tanto inattesa quanto efficace.
L’ultimo saggio pubblicato, Prima persona, perfeziona il tipico approccio alla realtà del Pontiggia scrittore: ciò che colpisce non è tanto la preziosità di uno stile che affascina e dona al lettore una gradevole vertigine, quanto la lucidità della comprensione di ciò che si agita nel cuore dell’uomo. Come le sentenze del biblico libro dei Proverbi, ogni frase del testo andrebbe studiata con accortezza, vale a dire con cuore sveglio e forte, per coglierne, assaporarne e assimilarne il senso. Pontiggia parte dal linguaggio per rivelare l’uomo che si svela nel suo lessico in un continuo rimando che provoca vertigine poiché spalanca e colma abissi. Non è tanto l’italianità, che peraltro avvolge i tipi umani che l’autore mette sotto la sua lente, che viene derisa e disinnescata, quanto la follia della società attuale che, ebbra ed esaltata, rincorre sensazioni sempre più travolgenti per anestetizzare la voce della coscienza: la medesima alla quale Pontiggia non esita a spalancare la porta del silenzio.
La conoscenza trascina sempre con sé la sofferenza: più conosci più soffri, meno conosci più fai soffrire gli altri. Pontiggia ha ben chiara questa verità e la declina nelle situazioni che, vedendo, sa guardare. Scruta senza illusioni i pensieri che il linguaggio, svelando, tradisce e li offre con chiarezza sobria alla nostra coscienza.
Non è il fuoco, il terremoto o il vento impetuoso e gagliardo ad attraversare questo libro, quanto il mormorio di un vento leggero che, nella quiete di un camino al tramonto, ci confida, con la delicata violenza dei saggi, i nostri errori ottenendo la nostra intima confessione.
Castiga i costumi dell’attualità non con una risata carnosa e crudele, quanto con un sorriso sobrio e misericordioso, compartecipe non distaccato. Stigmatizza il perdonismo che, ignorando il dolore e sottovalutando la imputabilità, cancella il delitto trasformando le vittime in colpevoli e i criminali in protetti e negando la salvezza che deriva dall’assunzione della responsabilità. Limpide e profonde le riflessioni su colpa e psicanalisi, e sulla capacità di quest’ultima di rifiutare le colpe reali per concentrarsi su quelle virtuali. Denuncia l’orgoglio dell’ignoranza, la follia di chi non solo non prova disagio per la propria incapacità, ma disprezza la saggezza degli altri: individuando nella scuola lo strumento che facilita il livellamento. Esalta invece la consapevolezza del proprio limite, senza temere di affiancarla all’umiltà della quale apprezza lo slancio verso la crescita personale.
Insomma, Pontiggia è uno di quegli autori che vorresti avere accanto in una sera d’estate, quando il cielo scivola sotto l’orizzonte rosso, e tu lo guardi dalla terrazza, per poter parlare con lui senza sosta, anzi, per poterlo ascoltare, nelle sue frasi lente e punteggiate da una mimica tra le più espressive. Non condividerai tutto di ciò che dice, ti darai da fare per convincerlo che sbaglia, ma non perderai mai la voglia di conversare.
Proprio per questo è meritoria e valida l’opera postuma, Il residence delle ombre cinesi (Mondadori 2004) che raccoglie alcuni racconti ed articoli, apparsi in precedenza su riviste e quotidiani, curati da Antonio Franchini, autore anche di un interessante saggio su Pontiggia che compare a chiusura del libro: una sorta di ultimo viaggio accanto ad un amico che ci ha preceduti nel salto verso l’infinito.

Per chi volesse approfondire la conoscenza di Pontiggia e delle sue opere, consiglio una visita a questo indirizzo.

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