"Giobbe" 9 - La straziante partenza per l'America
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Una mattina improvvisamente uno straniero entra nella casa di Mendel Singer: è Mac, un amico di Schemarjah: porta sue notizie, sta bene, si è sposato, manda dei soldi e dei biglietti per imbarcarsi e raggiungerlo in America.
Fra le righe del racconto leggiamo un altro riferimento ai Sacri Testi. Anticamente nella Genesi Giacobbe aveva avuto lo stesso destino di Mendel: il figlio Giuseppe era stato venduto, aveva trovato fortuna in Egitto, e aveva invitato il padre e i fratelli a raggiungerlo. Per questo Giacobbe aveva abbandonato la terra di Canaan per un paese straniero e con questo richiamo alla storia antica pensiamo che ancora una volta Roth sottolinei la ripetitività nella storia dello stesso doloroso destino di esilio del popolo ebraico e dei suoi figli.
La proposta sconvolge la piccola famiglia: se partissero che ne sarebbe stato di Menuchim? Chi lo avrebbe accudito? Cosa poteva significare un viaggio in America?
Ma bisogna andarsene: già Schemarjah e Jonas sono lontani, ora bisogna salvare Mirjam: è stata vista tornare dai campi abbracciata ai cosacchi e nella notte fugge da casa verso la caserma.
Deborah accetta. La decisione è presa. Menuchim non partirà. La casa sarà data a una coppia di sposi in cambio del mantenimento del bambino. Appena possibile torneranno a prenderlo, perché non sarebbe di certo passato ai controlli medici all’ingresso nel Nuovo Continente.
Deborah fa un ultimo tentativo.
“È già cosa decisa per te che Menuchim resti qua? Ci sono almeno un paio di settimane prima della nostra partenza, prima d’allora Dio farà sicuramente un miracolo». «Se Dio vuol fare un miracolo», rispose Mendel «non te lo farà sapere prima. Dobbiamo sperare. Se andiamo in America, lasciamo qui Menuchim. Dobbiamo mandare Mirjam da sola in America? Chissà che cosa combina, sola in viaggio e sola in America. Menuchim è tanto malato che solo un miracolo può aiutarlo. Se un miracolo lo aiuta, allora può seguirci. Perché l’America è sì molto lontana, ma non è poi fuori di questo mondo». Deborah restò zitta. Sentiva le parole del rabbi di Kluczysk: «Non lo abbandonare, resta con lui, come se fosse un bambino sano!». E lei non restava con lui. Per lunghi anni, giorno e notte, ora per ora aveva aspettato il miracolo promesso. I morti nell’aldilà non aiutavano, il rabbi non aiutava, Dio non voleva aiutare. Un mare di lacrime aveva pianto. Notte nel suo cuore c’era stata, pena in ogni gioia, dalla nascita di Menuchim. Tutte le feste erano state tormenti e giorni di lutto tutti i giorni di festa. …
«Quello resta un minorato» dicevano tutti i vicini. Perché a loro non erano toccate disgrazie, e chi non ha disgrazie non crede neanche ai miracoli. Anche chi ha disgrazie non crede ai miracoli. Miracoli accadevano in tempi antichissimi, quando gli ebrei vivevano ancora in Palestina. Da allora non ce ne sono più stati.
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Sebbene non ci sia molto da imballare, Deborah inizia una frenetica attività. Imballa e sballa di nuovo e Menuchim la segue ansioso, non la lascia un minuto e continua a pronunciare la parola mamma, in preda all’agitazione e al tormento.
A volte striscia nel buio quasi a nascondersi, altre volte afferra il grembiule della madre e bofonchia parole incomprensibili. Deborah lo prende in braccio e gli sussurra le strofe della canzoncina che lui ama tanto e ripensa alle parole del santo rabbi: “Non abbandonarlo”.
Il giorno della partenza l’addio è straziante: dopo aver preso in braccio Menuchim, Deborah lo depone con cautela per terra e dopo le ultime grida di disperazione viene messa svenuta sul carro per allontanarla dalla casa.