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"Giobbe" 11 - Il romanzo del padre

La sua pietas religiosa - dice Magris - è il modo di essere di tutta la persona, come l’essenza stessa della vitalità,… inscindibile dalla sua incrollabile robustezza fisica e spirituale.

La casa preparata per i genitori da Sam è piccola: le due donne dormono assieme in una stanza e Mendel in cucina su una branda.
Dopo poco tempo inizia l’ambientamento: Mendel riconosce le strade, saluta i vicini, scambia qualche parola in inglese. Ma mentre le due donne si distraggono, vanno al cinema, ascoltano il fonografo e Mirjam va a ballare civettando con Mac, Mendel non muta, non dimentica, e il suo pensiero torna continuamente a Zuchnow, a Menuchim.
Egli vive nel tormento - leggiamo - nel rimpianto e nell’attesa, ostinatamente fedele alla vita che ha lasciato in Russia e alla fede nel Dio dei suoi padri.
Il protagonista del romanzo non si perde come i tanti ebrei che hanno lasciato la loro terra in Oriente e non si assimila come i suoi figli: non cancella il suo passato, non abbandona la sua fede e giustamente Giobbe è stato definito da Magris “il romanzo del padre” cioè di una figura paterna che si staglia sulle altre, che nella famiglia incarna l’autorità patriarcale, la fedeltà alla tradizione, sia che trasmetta il Talmud ai bambini di Zuchnow sia che accetti la vita in America senza subirla.
La sua pietas religiosa - dice Magris - è il modo di essere di tutta la persona, come l’essenza stessa della vitalità,… inscindibile dalla sua incrollabile robustezza fisica e spirituale. Giobbe - continua Magris – è il tentativo dì riproporre una misura dì santità quotidiana nell’universo della conclamata assenza dì ogni elemento essenziale e soprattutto dì valori, realizzati o realizzabili, o anche semplicemente proponibili. E la forza del protagonista si manifesta proprio in America, terra e società “senza padri” (C. Magris, “Lontano da dove” , Einaudi 1977 pag.147).

Mac e Sam lo tranquillizzano: presto si troveranno i soldi per il viaggio, gli affari di Sam vanno bene, in affari hanno guadagnato molto, una lettera arrivata da Zuchnow dice che il bambino cresce e forse a Pietroburgo verrà curato, e anche Jonas, il figlio maggiore è diventato un ottimo cosacco e come lui nessuno sa conoscere e cavalcare i cavalli, forse presto potrà rivederli.
Riprendono le preghiere e i ringraziamenti al Signore Onnipotente e benevolo, che dunque non si è dimenticato del suo servo fedele.
Le preoccupazioni sembrano aver lasciato la casa dei Singer. Come sorelle invise li avevano accompagnati nella vita ed ora li avevano finalmente abbandonati.
Mendel ha 59 anni, è un piccolo ebreo devoto, si è fatto degli amici: il calzolaio, il negoziante di dischi, lo scrivano della bibbia, l’ortolano; i figli gli dimostrano ogni giorno che veramente l’America è un paese bellissimo, e suo nipote, il figlio atteso da Sam, sarà felice. Ora può aspettare serenamente la morte, anche se nei suoi sogni talvolta la sagoma grigia del piccolo infermo irrompe fra le strade di New York, si staglia sullo sfondo della Casa Bianca, s’intrufola fra i cantanti e gli acrobati delle insegne pubblicitarie. Chissà che un giorno Sam e Mac non possano andare a prenderlo in Russia per riportarlo da lui! Mac promette. Prenoterà il biglietto per la nave.
Ma la guerra scoppia e travolge il mondo intero e toglie ogni speranza: Menuchim non può essere raggiunto, Jonas per lungo tempo non lascerà l’esercito, anche Sam è arruolato.
Come il Giobbe biblico, Mendel inizia a tremare: l’Onnipotente è lontano, e i suoi disegni sono imperscrutabili e le preghiere non servono.
Dondolava sempre allo stesso modo. E solo dalla sua voce un attento ascoltatore avrebbe forse capito se Mendel, il giusto, era riconoscente o pieno di angosce. In quelle notti lo scuoteva la paura, come il vento una debole pianta. E la pena gli prestava la voce, una voce estranea cantava i salmi. Aveva finito. Chiudeva il libro, lo sollevava alle labbra, lo baciava e smorzava la fiamma. Ma non si acquietava. Troppo poco, troppo poco, si diceva, ho fatto. A volte trasaliva al pensiero che l’unico mezzo che aveva, cantare salmi, potesse essere impotente nella grande tempesta in cui Jonas e Menuchim perivano. I cannoni, pensava, tuonano forte, le fiamme sono potenti, i miei figli bruciano, è colpa mia, colpa mia! E io canto salmi. Non basta! non basta! (pag.132)

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