Elena Bono: Padri e paternità
"Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare". Padri e paternità in Elena Bono- Autore:
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E' un'unica e sola tensione quella che corre fra due testi distanti nel tempo, il più antico"Morte di Adamo" e il recente "Una valigia di cuoio nero", quella che fa di Elena Bono, ai più sconosciuta, una delle più grandi scrittrici italiane dei nostri giorni, capace di uno sguardo profondo e penetrante, di cui le sue stesse parole, scelte come titolo, danno ragione. (1)
Come lampi nella notte, i due racconti della Bono, fotografano la condizione esistenziale dell'uomo, dell'uomo di sempre, fragile e peccatore, dell'uomo moderno, annientato dalle ideologie eppure vibrante di speranza e desiderio di redenzione.
La nostra riflessione, e ci perdoni l'autrice se non rispettiamo la genesi cronologica della sua produzione, da "Una valigia di cuoio nero" risale spiritualmente verso "Morte di Adamo", verso quell'origine che ricomponga l'unità perduta.
Una valigia di cuoio nero
Densa e magmatica, materia incandescente, la narrazione de "Una valigia di cuoio nero" sviscera gli inquieti interrogativi dell'uomo contemporaneo: quale il rapporto tra il cosmo ed il frammento? quale il possibile significato degli oggetti che ci circondano, delle persone, anche le più familiari? e la ragione perché fallisce, impotente davanti agli orrori del nostro tempo, incapace a conoscere e a dirigere rettamente l'azione umana e a discernere con chiarezza i confini del male e del bene?
Questi sono forse i temi più interessanti del racconto, una lucida ed acuta lettura, a tratti sconvolgente, della crisi dell'uomo occidentale frantumato e dissolto dalle ideologie del Novecento. In questa trama densa e complessa, balza agli occhi il drammatico rapporto padre-figlio, contestato, anzi già tramontato nel nichilismo novecentesco che elimina ogni traccia di padri e di paternità.
La narrazione si dipana per spire profonde in un sapiente e raffinato gioco ad incastri, a scatole cinesi, fino a che tutto si svela e viene alla luce.
Gli episodi sono narrati dal protagonista, Kurt, in una lunga lettera-monologo al fratello Günter, via via svelandosi come un gomitolo che si dipani a fatica; alla fine i diversi tasselli prendono ordine e disegnano la mappa dell'orrore: la tragedia della Germania dilaniata dalla seconda guerra mondiale, la scelta di Tycho, l'unico figlio di Kurt, fervente sostenitore dell'aberrante ideologia nazista, il lento ma inesorabile tramonto della famiglia dei "Giudici", antenati prossimi e remoti del protagonista, l'imminente suicidio di Kurt, incapace a sostenere e a dare un significato a tanta distruzione personale e storica.
La memoria di Kurt riannoda gli avvenimenti che lo hanno visto padre fallito e figlio di un padre volterriano, il cui orgoglio per la chiarezza razionalistica permetteva alle figlie di essere educate in un collegio di suore cattoliche, ma nel contempo svuotava con metodico stillicidio la fede della moglie. Kurt, tra le righe del suo ultimo scritto, confessa al fratello una lacerante mancanza di senso per tutto ciò che avviene ed è avvenuto, nonché una nostalgia per il Bene e i grandi valori dell'antichità, tanto cercati negli studi classici ma mai trovati e una nostalgia per il Padre, che l'educazione del padre terreno ha voluto con fredda determinazione cancellare.
Evanescenti e paradossalmente telluriche le figure femminili.
Gerda, la moglie, amata per i bellissimi occhi color zaffiro, ma presto allontanata spiritualmente per le eccessive diversità di carattere, interessi e sentimenti (peraltro la donna stessa si isolerà dalla famiglia quando scopre di avere sangue ebreo nelle vene). Venuto meno il patto nuziale prende piede, sempre di più, la connivenza madre-figlio, in una lotta serrata e astiosa contro il padre, contro i padri-padroni della famiglia dei Giudici.
Accanto alla moglie campeggia la madre di Kurt, Maman: nobile ed altera, fredda e distaccata, il cui formalismo religioso diventa àncora, inutile, per sopravvivere in un contesto familiare velatamente ostile alla fede ed alla Chiesa. Con Gerda è responsabile delle scelte del nipote Tycho, lo protegge nelle intemperanze infantili e appoggia la sua fuga in "collegio", un segreto seminarium delle SS. Totenkopf.
Vacue ed inconsistenti le due sorelle di Kurt e Günter, Marion e Amélie: avide, viziose, pronte ad arraffare e a spartirsi i resti della grande ricchezza della famiglia alla morte della madre.
Nanette e Tycho
L'unica presenza femminile, dolce e solare, quasi donna-angelo dantesca è Nanette, figlia di Günter, amata da Tycho durante una estate.
La piccola Nanette, ora sposa e madre in un paese lontano, appare quasi subito nei flash-back dell'io narrante. La fanciulla è orfana e indifesa, poiché l'integerrimo Günter, abbandonato dalla moglie, ne cancella anche la memoria nella vita familiare, occupandosi dei figli in modo pragmatico e distaccato. Nanette si lega allora in modo particolare a zio Kurt, lo cerca, ne fa il suo confidente ("…Zio mio, zio mio, sarò un po' più felice di mia madre nel matrimonio? un po' meno infelice?…"), fino ad assurgere a elemento cardine della vicenda. Kurt ricorda alcuni episodi dell'infanzia del figlio e dei nipoti: il tentativo di Tycho di bruciare Nanette dopo la cremazione delle spoglie del nonno, Tycho che dà fuoco ad uno scoiattolino amato da Nanette…fino all'estate in cui sboccia l'amore tra i due, giunti ormai oltre l'età dell'adolescenza: "…(Nanette) Volava giù per il gran prato inglese, cosa d'aria e di luce; il muovere leggero delle braccia la rendeva più alata….Io sentii, Günter, ripercuotersi in me, quasi un effetto di consonanza, il colpo breve e eterno ricevuto da Tycho a quella bianca apparizione: un vestitino corto da tennis con cinturina d'oro… Rabbrividii come se avesse parlato un angelo… Bianca nel grande verde, e portatrice di salvezza. Così semplice e sciolta nella vestina corta da tennis, eppure così "simile ad una sacra immagine cui per segreta volontà degli Dei sia legato il destino di una città" (ndr. Citazione tratta dalla "Ifigenia" di Goethe, in uno stretto rapporto che il protagonista intuisce tra il destino di Nanette e dell'eroina classica). Con un unico sguardo era discesa nella buia prigione dove Tycho giaceva addormentato, fatto pietra dal Male…Dalle sue labbra, Günter, parlò Qualcuno, quella stessa Presenza cui appartenevano gli occhi severi e tuttavia misericordiosi. Della nostra Nanette rimaneva in quegli occhi la "fiducia infantile", tanto potente nel ricacciare il Male…". Quello fu un amore che "…riempiva l'anima di timore e tremore… quell'illudente amore, eppure vero nella sua forza d'esorcismo…".
Infatti tutto finisce, come bolla di sapone, a causa dell'imminente partenza di Günter e dei suoi figli per le Americhe. Tale notizia "…fu l'unico istante di tutta una vita, l'unico in cui (Tycho) si aggrappò con l'anima a me e fummo insieme, mio figlio ed io…"; da quell'istante però la faccia di Tycho ha un raggrinzimento strano, una strana risata gli deforma il volto, agghiacciando il cuore di chi lo sente, mentre matura l'idea di arruolarsi nelle SS.
Ma è nella luce di Nanette che si comprende, solo a questo punto, l'oscurità che avvolge Tycho, oscurità che da sempre lo ha caratterizzato.
Fin dalle prime pagine del romanzo la presenza di Tycho è accompagnata da segni di morte: la sua camera è la tana, la sua divisa da SS è nera ed è custodita, come preziosa reliquia in una valigia di cuoio nero, che spande un odore forte ed acre e contiene ben altri orrori; le azioni che lo vedono protagonista dell'ultimo tragico incontro con suo padre avvengono di notte, durante un bombardamento aereo che distrugge parte dell'antica abitazione. Tycho è il ragno, la belva che arriva e divora, l'incarnazione stessa del Male perpetrato con fredda e calcolata determinazione.
Fin dalla sua nascita Kurt percepisce la presenza del figlio con angoscia "…sentivo la mia anima farsi simile a un pozzo e in quel pozzo montare acque nerissime di spavento e angoscia… vederne il fondo e quale fosse l'animale morto che imputridiva tutta quell'acqua e la rendeva così simile all'acqua di una fogna…".
La memoria di Kurt dipana via via la matassa degli anni di Tycho fino all'oggi del loro ultimo incontro. Il giovane è sdraiato sul divano della sala, in veste nera da camera; ha gli occhi chiusi ma non dorme, parla come in stato di trance e, a sua volta, riannoda fatti e anni passati in un crescendo di accuse e farneticanti discorsi. Kurt, interpellato con insistente e sferzante sarcasmo come bone pater, humanissime pater, optime pater, non sa dire una parola, impietrito ascolta l'agghiacciante disamina del figlio e le sue folli, quanto reali argomentazioni sull'"ordine nuovo" che si verrà a creare e sull'uomo nuovo che sta per essere partorito dall'ideologia nazista.
Padri e paternità
Un importante tassello in questa concitata narrazione, tanto difficile da esaurire nella nostra breve presentazione, è la persona di Stolz, proprio a metà del romanzo. Il vecchio e sgraziato Stolz, custode della biblioteca di cui Kurt è il direttore, lo stesso giorno in cui Tycho è arrivato gettando ombre di angoscia attorno a sé, chiede di parlare al suo superiore. Con fatica cerca di mettere in ordine pensieri e parole, tanto che il sudore gli inonda la fronte e gli cola per la criniera grigia e i basettoni con i quali vorrebbe assomigliare a Francesco Giuseppe. Stolz lamenta la mancanza di un ordine certo, sociale e politico, a cui riferirsi, di un'incertezza e vacuità in cui tutto è permesso, persino accedere alla cultura, diventata ormai risciacquatura della sapienza. Con voce catarrosa, nella lenta parlata austriaca, con un aspetto di vecchione invernale, Stolz, arriva in breve al cuore delle sue argomentazioni: "…non c'è più gerarchia… Stolz ha servito sotto l'Imperatore, quello vero, apostolico e sacro Imperatore! Allora si sapeva chi comandava e chi obbediva. Ora si sa soltanto chi bastona. Bastona sì, ma non comanda veramente. Chi gliel'ha data a questi l'investitura, la sacra investitura?… nessuno di questi tempi può star bene, in una società così… decapitata, Stolz… e"i vuol dire senza più un padre, vero? Senza più un padre in cielo né quaggiù in terra, perché i padri non sono più padri, non ci si vede la faccia di Dio in trasparenza. Mio padre, povero ciabattino, curvo e storto era per noi figli la figura di Dio. Tal quale l'Imperatore sul suo trono: sempre figura di Dio. E perciò tra gli stenti e poche croste di pane, eravamo tranquilli, senza paure, sotto l'ala del Padre, mi spiego? Adesso siamo tutti disperati, inseguiti come Caino, non tanto perché abbiamo ucciso Abele, ma perché abbiamo perduto il Padre…".
Morte di Adamo
Sulle note limpide e accorate che sprigionano dalle parole di Stolz, quasi dantesca risalita dagli inferi dell'orrore umano verso una possibile redenzione e salvezza, è il secondo testo delle nostra riflessione "Morte di Adamo". (2)
Il racconto è tra i più impressionanti della Bono per ambientazione e narrazione, come mistica visione il Mistero si svela e prende inaspettata forma nelle parole. Emilio Cecchi così commenta: "Ciò che soprattutto colpisce è il fatto della scrittura estremamente composita e, al medesimo tempo, capace delle più strane, labili evocazioni…e una violenza espressiva, al cui confronto certe immagini di Altdorfer e di Grünewald possono sembrare degli zuccherini…".
Fin dalle prime battute incombe sul lettore un senso di oscuro presentimento: in un tempo impreciso, all'inizio di tutti i tempi umani, in un luogo arcano, alla presenza di nove patriarchi e di una sconfinata moltitudine di uomini ed animali avviene la morte di Adamo, il ritorno di Adamo alla terra: "…una moltitudine buia che ondeggiava e brusiva come fa l'erba dei pascoli quando le nere mandre del cielo strisciano in corsa sull'altopiano, con immenso muggito…". Tempo sospeso, in attesa di un evento, in attesa di un incontro… "dentro la tenda, accanto a Adamo, c'era Eva. E dentro Adamo, Dio…".
Il nodo stretto, il nucleo tematico di tutta la serie dei racconti, quella origine che dà ragione di tutto lo svolgimento è qui, in questo altamente drammatico scontro-incontro Dio-uomo, Padre-figlio, Figlio-figli.
Adamo nell'agonia della morte sente la voce di Dio, "Dove sei?", e cerca di nascondersi "nudo e insanguinato", ma urta contro un corpo, il corpo martoriato di Abele, dalla cui gola forata continua ad uscire sangue.
"Chi ha fatto questo?" incalza Dio, "ma la bocca di Adamo era chiusa alla verità e Dio voleva aprirla. Allora cominciò la lotta di Dio con Adamo", la lotta per il riconoscimento di una paternità tradita ed una figliolanza perduta.
Il cuore di Adamo è gonfio di una angoscia che urla a Dio dalla profondità delle sue fibre "Perché mi hai creato?" ed in questo incalzare di domande a cui fa eco il silenzio, i due contendenti, il Creatore e la creatura, giungono al dialogo, nel doloroso ricordo dei giorni sereni trascorsi nell'Eden, del loro passeggiare insieme al tramonto del giorno, tra profumi notturni e freschezza di piante. Ma ora "…essi erano nemici legati l'un l'altro dalle necessità della lotta, anche se grande era la pietà nel cuore di Dio e grande il rimorso nel cuore di Adamo…".
All'improvviso dalla gola forata di Abele, oltre allo sgorgare del sangue, sgorga anche un canto "…Ecco il tuo agnello, Dio, pastore dei cieli…". Adamo in un frangente rivede il figlio mentre offriva doni a Dio; allora il suo volto era raggiante e su di esso riverberava la bellezza del Creatore, e per questo era da Lui prediletto, ma nello stesso momento Adamo vede il volto disperato di Caino: "…così la bocca di Adamo si aprì alla verità e gridò: con la mano di Caino il mio peccato ha ucciso Abele, mio figlio…".
Prende così forma il dramma di Adamo: la ribellione a Dio, al Padre diventa incapacità di essere padre a sua volta, fino al desiderio di annullare quel figlio che riflette con luminosa chiarezza la Bellezza originaria; è il peccato di Adamo che arma la mano di Caino, permettendo così all'orgoglio di devastare la fratellanza.
"…Ed ecco il mio cuore (ndr. dice Adamo) si è riempito di tumulto: hanno urlato il mio peccato e la mia umiliazione, gioia e furioso amore, desiderio di morte e volontà di distruggere la tua traccia. Lo grido innanzi a Te: non volevo uccidere Abele, ma Dio. Ah perché sei tornato nel figlio dell'uomo?"
I figli e i discendenti assistono il morente, ma non avvertono il dramma della lotta, solo Eva, madre di tutti i viventi, e qui certamente anche figura di Maria, comprende la vertiginosa importanza di questi frangenti, chiede che il vecchio Adamo venga portato sotto il grande albero, nato da un ramo strappato dal giardino dell'Eden e trafugato nella precipitosa corsa verso la terra d'esilio. Sotto quell'albero Eva si riposava "…quando il frutto del ventre pesava come un peccato triste senza perdono; e sempre all'aereo mormorare dei rami una sconosciuta speranza l'adombrava, che l'induceva a lacrimare; così mentre il sonno veniva sui suoi occhi, le sembrava di portare nel ventre nient'altro che quella speranza…".
E' proprio su questa speranza, intuita come profondo desiderio che si chiude il racconto e getta luce sul futuro di una possibile ricomposizione dell'armonia perduta: Dio promette il Figlio, un figlio che, come Abele innocente, verrà ucciso dalla cattiveria dei suoi fratelli.
"…Adamo, chiamò Dio, ascolta ciò che dice il Signore. Dio dice: darò nelle tue mani mio figlio, l'agnello di Dio senza peccato; in Lui la mia somiglianza con te sarà rinnovata per sempre. Dio e Adamo in Lui saranno uno solo. Tu l'ucciderai, nuovo Abele, servendoti dell'albero (ndr. l'albero sotto cui Adamo è portato per morire), me l'offrirai in sacrificio e mangerai la sua carne e berrai il sangue suo. Egli prenderà sopra di sé i tuoi peccati e in Lui farò giustizia del pianto e del sangue. Starà come segno di pace tra noi, speranza per te ed i tuoi figli fino all'estrema generazione… e il cuore di Adamo, tremando, ebbe compassione di Dio…".
Note
(1) Nata a Sonnino nel 1921, figlia di un noto studioso di letteratura classica, si trasferisce ancora adolescente in Liguria e lì vive oggi in una solitudine che non dà ragione alla grandezza delle sue opere e alla sua profonda sensibilità.
Scrittrice dalle molteplici sfaccettature, in questi lunghi anni, ha dato alla luce raccolte di poesia, come "I galli notturni" (1952), "Alzati Orfeo" (1958), opere di teatro, tra cui "Ippolito" (1954, rappresentato da Emma Grammatica a Roma nel '57), "La testa del profeta" (1965, che ebbe anche rappresentazioni radiofoniche) e ha curato la traduzione per Garzanti di "Edipo re, Edipo a Colono" e "Antigone" di Sofocle (1977). Tra le opere di narrativa abbiamo già citato la serie dei racconti "Morte di Adamo" (Garzanti 1957, EmmeE 1988), il romanzo "Come un fiume, come un sogno" (1985), primo volume della trilogia "Uomo e Superuomo", di cui i racconti de "Una valigia di cuoio nero" (1998) costituiscono il secondo volume. Giovanni Casoli, in "Novecento letterario ed europeo. Antologia e testi scelti", Roma, Città Nuova, 2002, ha scritto una lunga ed interessante presentazione della nostra autrice.
(2) Scritti nel lontano 1956 (editi da Garzanti) e ristampati dopo trent'anni nel 1987, i racconti di "Morte di Adamo" seguono, con forza di visione, gli ultimi momenti della vita di Gesù, dall'ultima cena fino alla resurrezione e alla diffusione del cristianesimo a Roma caput mundi.