"Alto come un vaso di gerani" 4 - L'Autunno: stagione delle metamorfosi
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L’Autunno
La terza parte del racconto si apre con la descrizione dell’Autunno.
Nella stagione delle metamorfosi inaspettate, Inesorabilmente, leggiamo, appassisce la sicumera degli alberi, l’allegria smodata dei fiori si trasforma in un silenzio rattrappito... E’ il tempo in cui la natura è irresistibilmente sensuale: ci offre un abbraccio che sa di essere l’ultimo, negli occhi i colori della nostalgia, di ciò che è stato e non sarà più…
Ciò che poco prima appariva splendente e luminoso sembra appannarsi e spegnersi e i colori festosi hanno ceduto il posto a tinte più scure, a ombre più fitte.
In queste pagine vengono ricordati gli anni compresi fra il 1960 e il 1970, quando le fabbriche prosperavano nel Legnanese e i genitori dovevano conciliare famiglia e lavoro: il padre faceva l’operaio metalmeccanico e la mamma lavorava ai telai della azienda Giulini&Ratti e quando entrambi avevano il turno del mattino, alle 5 svegliavano Giacomino e la sorellina, li vestivano e sistemati sulla bicicletta li portavano ancora mezzi addormentati a casa di una delle due nonne. La vita sacrificata non sembrava mai pesare ai genitori che affrontavano ogni difficoltà con animo lieto e fiducioso. Durante uno di quei viaggi Giacomino aveva chiesto se anche lui da grande doveva andare in fabbrica, ma la mamma lo aveva rassicurato: lui da grande sarebbe stato impiegato di banca e ancor oggi l’attore afferma con sorridente ironia: Mi son sempre chiesto se non son cresciuto per paura di finire in banca, o perché mi svegliavo troppo presto al mattino.
Improvvisamente a 13 anni il protagonista decide di interrompere la scuola per andare a lavorare in un capannone dove facevano delle cancellate in ferro pesantissime e niente e nessuno potrà fargli cambiare idea. Frequenterà le scuole serali.
Dai 16 ai 19 anni (1972-75) le giornate venivano sempre scandite dagli stessi orari: 7.59 - 17,09 lavoro in fabbrica, 17,58 - 22,20 scuola, e gli anni rotolavano l’uno dopo l’altro.
Dopo la fabbrica è stata la volta di un’altra fabbrica: quella della salute, l’ospedale, dove Poretti ha lavorato come infermiere per 11 anni e dove fra un turno e l’altro ricorda di aver visto migliaia di aurore, di albe, di tramonti. Nel suo reparto dominava una figura femminile, indimenticabile nel suo primo apparire: La caposala prese servizio alle 8,30. Si chiamava Suor Aurelia. Uscì dall’ascensore e si piazzò in mezzo al corridoio. Tutti si fermarono: i dottori smisero di visitare, gli infermieri di medicare, i malati di respirare, i loro parenti di sperare. Guardò a destra e poi a sinistra, i suoi occhi cercavano gli angoli, la sua vista era acuta a pignola come quella di un’aquila. Sorrise battendo le mani ed esclamò: Buona giornata!
Spassosissime descrizioni rievocano gli inizi maldestri della nuova attività, ma quell’esperienza ha anche fatto conoscere da vicino a Giacomo il dolore e la morte.
Una volta un ammiratore del comico gli aveva detto: Chissà come avrà fatto divertire gli ammalati quando lavorava in ospedale!.
Ma per lui non era stato così, perché anche se si è attori comici su certe cose e su certe paure non si può scherzare. Ogni giorno la morte ghermiva le persone da lui lavate, accudite, cambiate e le prime volte in cui qualcuna di loro se ne andava, sentiva uno strappo, un dolore profondo. Il ricordo della morte del ragazzo più giovane del reparto, di soli 17 anni, è impresso nella sua memoria con la drammaticità e lo spavento che suscita sempre la vita con le sue esperienze più intense.
Dopo queste riflessioni il racconto riprende l’ordine cronologico degli avvenimenti tornando a quando l'autore era sedicenne.