Rileggere Reparto C di Aleksandr Solzenicyn - 2
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Il giorno della Creazione
Ma c’era un altro fatto che apriva nell’animo di Kostoglotov una sia pur timida speranza. Alcuni giorni prima era caduto il secondo anniversario della morte di Stalin e, con grande costernazione di alcuni malati, la data non era stata commemorata dai giornali con il previsto risalto. Forse allora qualcosa stava per cambiare: forse la porta di ghisa, che sembrava chiudere per sempre la possibilità di vivere, cominciava a vacillare.
Di nuovo il suo (di Kostoglotov) cuore batteva. Martellava contro la porta di ghisa che non doveva aprirsi mai, ma che un po’ aveva cigolato! Un po’ aveva sussultato! Un po’ di ruggine era caduta dalle cerniere.
Per Kostoglotov era impossibile capire ciò che sentiva dire dai liberi: che due anni fa in quel giorno piangevano i vecchi, piangevano le ragazze, e il mondo sembrava essere diventato orfano. Gli riusciva inimmaginabile tutto questo poiché egli ricordava come le cose si erano svolte da loro. Un bel giorno non li avevano fatti uscire per il lavoro, e non avevano aperto le baracche, li avevano tenuti rinchiusi. Anche l’altoparlante fuori della zona, che si sentiva sempre, era stato disinnestato. Tutte queste cose messe insieme dicevano chiaramente che i padroni erano nei pasticci, che era loro successo un grosso guaio. Un guaio per i padroni è una gioia per i detenuti! (…) La verità cominciò a serpeggiare. Dapprima incerta. Si girava per la baracca, ci si sedeva sui tavolacci: - Ehi, ragazzi! Sembra che il Cannibale abbia tirato le cuoia… - Ma va’??? – Non ci crederò mai. – Io invece ci credo. – Era ora!! – E giù una risata in coro! Più forte chitarre e balalaiche! Le baracche non furono aperte per ventiquattro ore. La mattina dopo, una mattina ancora gelata in Siberia, tutto il «campo» fu fatto schierare: il maggiore, i due capitani, i tenenti, c’erano tutti. Il maggiore, nero dal dolore, cominciò a dare l’annunzio:
- Con profondo cordoglio… ieri a Mosca…
I ruvidi, spigolosi, rozzi, scuri ceffi dei detenuti misero in mostra i denti e per poco non esultarono apertamente. Quando si accorse di quell’inizio di sorrisi, il maggiore comandò, fuori di sé: - Levatevi i berretti!
Centinaia di uomini tentennarono, sul filo d’una lama: non levarseli era impossibile, e levarseli faceva troppa rabbia. Ma, precedendo tutti, il buffone del «campo», un umorista nato, si strappò il berretto, la stalinka di pelo sintetico, e la gettò in aria. Aveva obbedito al comando!
Lo videro in centinaia e gettarono in aria i berretti!
E il maggiore dovette mandarla giù [1].
Una delle cause principali del cancro, Stalin, non c’era più. Già nel campo l’impensabile libertà aveva, per un attimo, fatto capolino.
Kostoglotov dunque, uscito dal villaggio ospedaliero, salì su un tram e spinto anche dal desiderio di vedere un albicocco in fiore, si spinse fino alla Città Vecchia. Qui le vie erano strette, le piccole casupole si accalcavano, spalla a spalla, poi anche le loro finestre scomparvero, sfilarono alte pareti d’argilla, senza aperture. (…) Ma nessun albero cresceva nelle vie nude, altro che albicocchi in fiore! [2]
Invece dentro ai cortili, sui quali si affacciavano tutte le finestre delle case, sorgevano alti alberi, intorno ai quali le donne cominciavano già a sfaccendare e i bambini a giocare. Oleg entrò in una sala da tè su una terrazza sopra la via e si sedette presso la ringhiera.
Con infinita calma la gente sedeva nella sala da tè.
Si poteva pensare che il sergente Kostoglotov, il deportato Kostoglotov, ultimato il servizio e la pena che avevano voluto da lui gli uomini, finite le sofferenze che aveva voluto da lui la malattia, fosse morto in gennaio. Adesso, traballando sulle gambe incerte, dalla clinica era uscito un nuovo Kostoglotov, «sottile, squillante e trasparente», come dicevano nel «campo», era uscito non più per una vita piena e completa, ma per una vita aggiunta, come l’aggiunta di pane che s’attacca alla razione con uno stecco di legno: sembra che rientri nella razione, e invece no, è un pezzetto a parte.
Cominciando, quel giorno, la piccola vita aggiunta, data ancora una volta, Oleg voleva che essa non somigliasse a quella principale, già vissuta. Avrebbe voluto smettere di sbagliare. [3]
Infine Oleg spostò un poco la sedia. Allora dal terrazzo della sala da tè vide, sopra il vicino cortile coperto, un pallone rosa imponderabile, diafano, come un soffione di circa sei metri di diametro. Una pianta così grande e così rosa non l’aveva mai vista.
L’albicocco?!…
(…) Si accostò alla ringhiera e di lì, dall’alto, guardò quel roseo miracolo trasparente.
Se ne fece dono: per il giorno della creazione.
Come in una stanza di una casa del Nord un albero di Natale addobbato con le candele, così in quel cortiletto chiuso da muri d’argilla e aperto soltanto al cielo, dove si viveva come in una stanza, c’era, unico albero, un albicocco in fiore, e sotto di esso ruzzavano i bambini e una donna con un fazzoletto nero a fiori verdi zappava la terra.
Oleg guardava con attenzione. Il rosa era l’impressione generale. Sull’albicocco c’erano boccioli bordò come candele, e i fiori, quando si aprivano, avevano la superficie rosa, mentre, dopo che si erano aperti, erano semplicemente bianchi, come su un melo o un ciliegio. Ne veniva una rosea dolcezza inconcepibile e Oleg cercava di raccoglierla negli occhi per ricordarla poi a lungo, per raccontarla ai Kadmin.
Il miracolo era stato presentito ed era stato trovato.
Ancora molte gioie diverse lo aspettavano quel giorno nel mondo appena nato!… [4]
Il ritorno alla vita di Kostoglotov è una specie di dono aggiunto, come il pezzetto di pane unito con uno stecco alla razione: potrebbe non esserci, invece, grazie al cielo, c’è. L’albicocco in fiore rappresenta proprio questo dono: poteva anche non esserci, o non essere visto. Ma per trovarlo Kostoglotov ha dovuto desiderarlo, cercarlo, presentirlo, predisporre cioè il proprio cuore. L’albicocco non è soltanto il simbolo trasparente della speranza di felicità, ma è esso stesso una gioia, l’inizio di una grande felicità, che dipende, come insegnano i Kadmin, dai rapporti tra i cuori (infatti buona parte della gioia di Oleg dipende anche dal fatto che pensa di raccontarla ai suoi amici) e dal punto di vista sulla vita, e pertanto niente e nessuno la può impedire.
Note
[1] A. Solzenicyn, Reparto C, Einaudi 1969, traduzione di Giulio Da Costa, pp. 347-348.
[2] p. 529.
[3] p. 531.
[4] p. 532.