Rileggere La casa di Matrjona di Aleksandr Solzenicyn - 1
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1- La casa della Russia più vera
Il racconto La casa di Matrjona di Aleksandr Solženicyn è particolarmente caro a Russia Cristiana, tanto che, come è noto, ne ha adottato il titolo per la sua attività editoriale.
Scritto negli anni in cui lo scrittore mirava alla pubblicazione in patria e dunque trattava della realtà russa con mano leggera, è una delle sue rare opere narrative (o forse l'unica?) che usi la prima persona.
L'io narrante, che nel corso del racconto viene chiamato semplicemente Ignatič, nell'estate del 1953 (poco dopo, dunque, la morte di Stalin) tornò alla ventura in Russia dal deserto torrido e polveroso, non atteso né chiamato da nessuno, perché il ritorno avveniva con un ritardo di circa dieci anni [1]. Quindi aveva trascorso quegli anni tra campo di concentramento e confino, proprio come Solženicyn stesso. Ritornava in Russia perché, afferma, volevo penetrare e perdermi nella Russia più vera, se mai essa ci fu, e avevo voglia di insegnare.
Giunto nel villaggio di Tal'novo come professore di matematica, osservò che effettivamente i nomi di quei luoghi gli promettevano una Russia antica, remota [2]. Accompagnato da una donna del posto, cercò un'isba dove stare a pigione e si fermò da Matrjona (anch'esso un nome della Russia antica), una donna sulla sessantina, sebbene la sua accompagnatrice lo avvertisse che «da lei non c'è ordine, trascura tutto, è malata». Anche Matrjona si schermiva, ripetendo: «se non so far niente, neppure da mangiare, come ti contento?», ma Ignatič aveva già deciso che la sua sorte era di stabilirsi in quell'isba buia, con lo specchio sciupato dove era impossibile guardarsi [3]…
L'isba era composta di varie parti, tra cui una dipendenza, unite sotto un unico tetto: era una costruzione antica e solida, fatta per una grossa famiglia [4]. Ora era malridotta (le assicelle andavano marcendo, le travi … erano diventate grigie di vecchiezza, come pure il portone, un tempo robusto, e s'era fatta rada la sua copertura [5]) e ospitava solo Matrjona, oltre a un gatto zoppo, i ficus, i topi e gli scarafaggi. In cortile una capra.
Ignatič si sistemò e imparò pian piano a familiarizzare con la donna (si viveva con dimestichezza); avrebbe voluto fissare in una foto il suo sorriso, perché ha sempre il volto buono chi è in pace con la propria coscienza [6], ma non vi riuscì. Egli notava le molte incombenze che impegnavano le giornate di Matrjona: svolgeva le faccende di casa, curava l'orto polveroso, che per mancanza di concime produceva solo smilze patate, si occupava delle interminabili pratiche per ottenere la pensione, compiva estenuanti viaggi per cercare l'erba per la capra (nei luoghi vicini non le era consentito farlo, per le assurde norme del kolchoz), e raccogliere (anzi, rubare) la torba per l'inverno. Infatti gli abitanti di quel luogo ricchissimo di torba non avevano diritto alla sua distribuzione e non restava alle donne che procurarsela illegalmente. Inoltre Matrjona veniva chiamata dal kolchoz, anche se non vi faceva più parte, per i lavori comuni e le amiche o le vicine chiedevano spesso il suo aiuto per la raccolta delle patate o altre faticose faccende. Lei non diceva mai di no e non veniva mai ricompensata: le donne del villaggio dicevano che non accettava denaro e non si poteva darglielo per forza.
Ogni tanto però Matrjona veniva presa dal suo male e rimaneva immobile a letto per un paio di giorni. Poi riprendeva i suoi lavori abituali.
Quando finalmente ottenne la pensione, si sistemò un po' meglio, si cucì duecento rubli nella fodera del cappotto per i funerali e diventò più tranquilla e allegra. Le sue tre sorelle, che prima non si erano mai fatte vedere, forse per paura che Matrjona chiedesse loro aiuto, ora la andavano anche a trovare.
La donna viveva una religiosità non certo fervente, ma primitiva e molto radicata: Era piuttosto una pagana e le superstizioni prendevano in lei il sopravvento (…). Per tutto il tempo che vissi da lei, non la vidi mai pregare né segnarsi. Ma ogni lavoro lo cominciava con un «che dio ci aiuti!» e anche a me cercava di dire «che dio ci aiuti!» ogni volta che andavo a scuola. Forse pregava ma di nascosto, vergognandosi di me o temendo di darmi fastidio. Nell'isba erano appese le icone. Nei giorni feriali erano buie, ma durante il vespro e fin dal mattino dei giorni di festa Matrjona accendeva la lampada a olio [7].
Quando alla radio trasmettevano canzoni russe, lei si inteneriva se riconosceva che erano fatte veramente alla maniera nostra.
Gradatamente il narratore venne a conoscere la storia di Matrjona: sposatasi prima della rivoluzione, aveva avuto sei figli, ma tutti erano morti molto piccoli; aveva poi adottato la nipote Kira, figlia di Faddej, che si era maritata da poco. Aveva stabilito che a lei avrebbe lasciato in eredità la dipendenza. Dell'isba non aveva detto niente, ma le sorelle ci facevano conto.
Un giorno Ignatič, al ritorno da scuola, conobbe Faddej, un vecchio alto, nero, quasi cieco e dall'aria ostinata. Matrjona la sera gli raccontò, turbata, di essere stata in procinto di sposare Faddej, ma questi aveva dovuto andare in guerra e per tre anni non aveva più dato notizie. Allora lei ne aveva sposato il fratello minore, Efim, ed era venuta ad abitare in quell'isba. Quando Faddej, che era stato prigioniero in Ungheria, ritornò, minacciò con la sua ascia di ammazzarli entrambi; infine volle sposare una donna che si chiamasse anche lei Matrjona, ma la trattava con durezza. In seguito anche Efim era partito per la guerra, la seconda, e non era più tornato.
Ed ecco, nota il narratore, che il nesso e il senso della sua vita …, divenuti visibili, in quegli stessi giorni si misero in movimento [8].
Kira e il marito per ottenere e conservare un terreno dovevano costruirvi qualcosa e materiale da costruzione non se ne trovava da nessuna parte. La dipendenza che Matrjona aveva già promesso a Kira era proprio quello che ci voleva: Faddej, che un giorno l'aveva costruita per sé, insieme all'isba, insisteva che Matrjona la cedesse subito alla figlia. Matrjona, cui non rincresceva né del lavoro né della roba sua, acconsentì, anche se l'atterriva l'idea di cominciare a distruggere il tetto sotto il quale era vissuta quarant'anni; e un giorno Faddej con i figli e i generi arrivò per smontare in gran fretta la dipendenza.
La dipendenza fu distrutta con la cantina e l'isba con l'andito accorciato fu chiusa con una parete d'assi provvisoria. Nella parete lasciarono delle fessure, e tutto indicava che chi aveva distrutto non sapeva costruire e non supponeva che Matrjona sarebbe vissuta lì ancora per molto tempo [9].
Matrjona rimase come smarrita, anche perché le sorelle le diedero della stupida e dichiararono di non volerla più vedere. Per di più nello scompiglio il gatto zoppo scomparve.
Note
[1] Aleksandr Solženicyn, La casa di Matrjona, In: Una giornata di Ivan Denisovič, ecc., traduzione di Vittorio Strada, Torino, Einaudi, 1963, p. 173.
[2] Ib., p. 176.
[3] ib., p. 178-179.
[4] ib., p. 178.
[5] Ib., p. 177.
[6] Ib., p. 205.
[7] Ib., p. 193-194.
[8] Ib., p. 202.
[9] Ib., p. 204.