Difendere la religione nella scuola e la sua laicità

Nostra intervista al Vescovo di San Marino-Montefeltro Mons. Luigi Negri, pubblicata su Il Resto del Carlino
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Sembra ormai una tradizione: in estate bisogna in qualche modo attaccare l’insegnamento della religione cattolica. Siamo interessati da tempo a questi argomenti, e col sito www.culturacattolica.it, in particolare per la competenza di Nicola Incampo, forniamo un servizio sia sul piano culturale che giuridico ai tanti insegnanti che ci frequentano. Abbiamo voluto affrontare la questione dell’IRC con il Vescovo di San Marino-Montefeltro, Mons. Luigi Negri, per la sua competenza nelle questioni scolastiche.


Gabriele Mangiarotti: Ci risiamo: non è la prima volta che l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) viene attaccato in agosto. Ricordo le varie prese di posizione di Berlinguer negli anni passati. Ma questa volta sembra che ci sia una intenzione nascosta più profonda: recuperare il consenso perso durante il Referendum. Questi «intellettuali senza popolo» devono pur riprendersi dopo la sconfitta subita (già lo hanno detto subito dopo il risultato fallimentare). È d’accordo?

S. E. Mons. Luigi Negri: L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali italiane ha rappresentato e rappresenta un fatto di enorme importanza sul piano culturale e non sul piano catechetico confessionale.
Culturale significa che, appartenendo il cattolicesimo, come dice la riforma del Concordato, alla sostanza dell’esperienza dell’italianità, è diritto fondamentale dei cittadini italiani, dei giovani italiani, conoscere adeguatamente questo insegnamento nella forma che questa tradizione ha avuto, quella cattolica romana, e quindi è un dovere dello Stato impartirlo, a chi lo chieda
Ora è chiaro che essendo proceduta in maniera galoppante la secolarizzazione del nostro paese, favorita anche spesso da un reale complesso di inferiorità sul piano culturale che la cristianità italiana ha avuto ed ha nei confronti di questo processo, l’attacco all’insegnamento della religione è parte fondamentale di questo processo di secolarizzazione.
L’esito del referendum ha segnato un fattore di contro-tendenza: obiettivamente il tessuto sociale del nostro paese ha espresso a livello culturale un dissenso dal processo di secolarizzazione e dalle agenzie che questo processo di secolarizzazione perseguono, soprattutto l’impero mass-mediatico.
È indubbio che a fronte di questa ripresa della tradizione o i laicisti direbbero del tradizionalismo, del clericalismo, è accaduto un attacco all’insegnamento della religione come se fosse un fatto eminentemente confessionale, in uno stato laico quindi come un fattore in qualche modo di invadenza del clericalismo nella vita e nella struttura del paese.
Io credo che sia di grande importanza che non solo i cattolici, ma anche i laici, in questa stagione di un possibile nuovo incontro fra una laicità non laicista e un cattolicesimo sostanziato di ragioni ideali e di capacità culturali, debbano difendere l’ora dell’insegnamento della religione cattolica dello Stato come fattore eminente di laicità, appunto perché consente al popolo di prendere coscienza della sua identità, ancor prima e a monte delle opzioni religiose o confessionali o non confessionali che ciascuno ritiene di voler fare.


Oggi spesso laicità è contrapposta a confessionalità. Per questo vari tentativi di riforma dell’insegnamento della religione tendono a suggerire una sorta di «storia delle religioni» o qualcosa di equivalente. Ma ritiene poi così vera questa antitesi tra laicità della scuola e confessionalità dell’insegnamento della religione?

La laicità è una forma mentis, è una opzione di fondo, sono valori di riferimento ultimi. È una weltanschauung in senso lato. La laicità è una concezione delle cose che non si oppone al Mistero, che non preclude il Mistero. Come diceva il mio grande professore di filosofia teoretica Gustavo Bontadini, la laicità vive del grande principio di escludere le escludenze, non si può cioè escludere nulla. Quindi non si può neanche escludere che la realtà della storia, della vita della società, per sua natura tenda ad altro da sé e trovi in altro da sé il suo riferimento.
Allora è assolutamente incongruo, secondo me, identificare in una presunta o reale storia delle religioni questo riferimento della laicità e i suoi valori. La storia delle religioni fa parte della conoscenza storica della realtà culturale che ci precede e che ci accompagna, quindi potrebbe trovare benissimo la sua collocazione all’interno della storia o all’interno della filosofia. Io quando ho insegnato filosofia e storia nei licei, avevo sempre un settore del programma del primo anno, dedicato alla storia delle grandi forme religiose. Penso al tutto il lavoro che in questo senso ha fatto Romano Guardini.

Da questo punto di vista anche la stessa geografia se la geografia è studio delle persone...

Se è una geografia antropologica e culturale e non semplicemente logistica. Ora capisco che in una società e una cultura come quella italiana, così fortemente caratterizzata dal cattolicesimo, la laicità fa fatica a formulare questi principi di fondo e a programmarne una eventuale conoscenza organica e sistematica, perché a fronte del cattolicesimo la laicità della nostra cultura è spesso stata subito strozzata in senso laicistico: contro il cattolicesimo i laici sono diventati laicisti. Ma se si vuole trovare un insegnamento lo si deve trovare sul piano di quello, passatemi il termine, che la vecchia teologia scolastica chiamava i preambula fidei o che il catechismo della Chiesa cattolica nella sua bellissima premessa chiama: l’uomo capace di Dio. È l’approfondimento del senso della ragione, del Mistero, della volontà, del rapporto intelligenza-volontà, il problema della moralità, del conoscere la moralità della gente. Se si vuole un insegnamento laico, bisogna fare un insegnamento di filosofia e di etica naturale, non pregiudicata in senso immanentistico e antiteistico. Ma la storia delle religioni non c’entra nulla, potrebbe essere inserita, ma non dovrebbe essere gestita dalle posizioni culturali del cattolicesimo piuttosto che della laicità. Dovrebbe essere gestita, nell’ambito dell’insegnamento dello Stato, da coloro che hanno le competenze per far questo e primi fra tutti gli insegnanti di storia e filosofia.

Non è vero forse che la crescente disaffezione nei confronti dell’insegnamento della religione cattolica ha come causa la sua «non cattolicità», non invece la sua esplicita connotazione cattolica: si rischia di parlare di tutto e non invece di ciò che è qualificante per questo insegnamento.

Certamente è una precisa disattesa del dettato della riforma e della intesa e quindi rappresenta un fattore di disordine dal punto di vista della gestione della propria funzione o del proprio ruolo nella scuola. Indubbiamente in un mondo giovanile come quello di oggi, che è stato il grande protagonista dell’evento di Colonia (come ho ricordato in un intervento sul Resto del Carlino), mi sembra che il mondo dei giovani oggi, sia protagonista di un riaprirsi della ragione come domanda di senso. Allora o l’insegnamento della religione si sintonizza con queste domande fondamentali e accompagna chi ha questa apertura al senso della vita, a conoscere la risposta che il cattolicesimo dà al problema del senso della vita, (e questo è il senso dell’insegnamento culturale della religione nelle scuole), oppure finisce per degradarsi a un impasto che non è più né religione cattolica né filosofia né antropologia e sostanzialmente, come tutte le materie concepite astrattamente e insegnate non meno astrattamente, non può cogliere l’interesse dei giovani.
L’interesse fondamentale dei giovani è di essere introdotti in maniera critica a prendere sul serio il problema della cultura. Il problema della cultura, come ci insegnava Giovanni Paolo II è l’affronto critico e sistematico della propria esperienza umana e quindi l’atto fondamentale dell’essere e dell’esistere dell’uomo come ha insegnato nella grande allocuzione all’UNESCO nel luglio del 1980.

In questo senso, una volta il Cardinal Martini diceva che l’insegnamento della religione cattolica consentiva alla scuola di essere tale, quindi era un servizio, noi diciamo che non solo è un servizio alla scuola, ma a maggior ragione è un servizio all’alunno, allo studente, ai giovani.

Servizio alla scuola in quanto la scuola è campo di vita, di presenza, di incontri, è una convivenza. Allora insegnare a dei giovani che lo vogliono che cosa sia il cattolicesimo è una esigenza fondamentale, un bisogno fondamentale non meno impegnativo che saper leggere e scrivere e far di conto come dettava la riforma delle elementari di Giovanni Gentile.
Quindi la scuola si arricchisce perché si mette in sintonia con i problemi reali degli studenti e non risponde invece a delle regole e a delle procedure di carattere istruttivo o addirittura tecnologico. La scuola che non avesse un insegnamento della religione, come quello previsto e proposto dalla riforma e dall’intesa sarebbe una scuola più povera perché più tentata di istruttivismo, più tentata di tecnologismo, più tentata di non essere a contatto con i problemi reali dei giovani, degli studenti.

La questione dei numeri dei non avvalentisi ha certo un forte impatto mediatico e non contano le varie e puntuali smentite. Il problema comunque esiste. Uno Stato che dice: L’IRC è indispensabile per capire sé e la propria storia e poi lascia che a chi non si avvale non venga fornita nessuna alternativa è incoerente o inadempiente.

Certo, più che inadempiente è astratto e quindi inevitabilmente violento perché a proposte esplicite corrispondono dei vuoti; invece a proposte esplicite dovrebbero corrispondere altre proposte altrettanto esplicite. Come avevo detto precedentemente, è certo difficile configurare con chiarezza il contenuto di una visione laica delle cose: è certamente più difficile, perché è più generale fino ad essere un po’ generico e tutto sommato, nel nostro paese la concezione è quella di tradurre sempre la laicità in laicismo, ma è un tentativo da correre. Ma il problema è questo: chi ha l’esigenza di questo insegnamento, lo chieda e chi ha la responsabilità di farlo lo assuma. Non che si attacchi ulteriormente la questione dell’insegnamento della religione come se rappresentasse una sorta di sudditanza della scuola laica, e quindi dello stato laico, alla Chiesa. La Chiesa, con l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di stato non c’entra se non in quanto deve fornire la forma dell’insegnamento perché il Concordato ritiene che debba essere la forma cattolica: non ha una responsabilità diretta. La responsabilità l’hanno i laici che intendono insegnare questa materia, l’hanno le famiglie che lo chiedono, l’hanno i giovani che lo chiedono e anche qui, la responsabilità in negativo l’hanno le famiglie che non lo chiedono e gli studenti che non lo chiedono.

Lei ha molto da dire della sua esperienza di «discepolo», in quanto ha avuto un maestro d’eccezione. Ci può raccontare qualcosa tra i suoi ricordi più significativi?

La mia esperienza ha due aspetti che mi sembrano estremamente significativi. Il primo è l’esperienza dell’insegnamento della religione che mi ha impartito don Giussani negli anni del mio Liceo Berchet: quello realmente di una introduzione critica e sistematica alla struttura fondamentale del cattolicesimo che è diventata poi anche un criterio di interpretazione della realtà. Quindi una visione in senso dinamico come una criteriologia conoscitiva, di valutazione etica, come una capacità di leggere l’esperienza del passato e del presente. In questo è stato realmente il don Giussani insegnante di religione, più ancora che il don Giussani fondatore del Movimento di Comunione e Liberazione, che mi ha colpito. Ciò che mi ha colpito è la radicalità della proposta culturale, che poi nella esperienza della realtà associativa di Gioventù Studentesca, si verificava nel concreto della vita quotidiana.
L’altra esperienza è stata quella del lavoro fatto per la difesa dell’insegnamento della religione e per la sua promozione. Ho percepito che stavo dando il mio contributo ad una grande battaglia di laicità della scuola del nostro paese. Quindi mi sembra di aver lavorato, come ha detto una volta Benedetto XVI, non per noi, ma soprattutto immediatamente per l’uomo. Nella scuola italiana, l’insegnamento della religione, è una ricchezza per tutti, per il popolo, per le istituzioni, è una ricchezza per la società, perché un insegnamento della religione vissuto bene, incrementa la coscienza della differenza cattolica e quindi mette in campo una forza culturale e sociale che avrà una sua identità e un suo modo di impostazione dei problemi culturali e sociali che ha la sua identità e anche a questo livello non c’entra la fede. Si può essere presenti nella vita sociale come cattolici senza una professione esplicita di cattolicesimo perché i valori del cattolicesimo, in quanto si identificano con l’adesione alla realtà che può essere assunta, vanno anche al di là della stretta appartenenza ecclesiale. Raggiungono il massimo dell’esperienza e della gratificazione nell’esperienza della fede, ma come forza della vita culturale e sociale, non dico che possono prescindere dalla fede, ma non mettono in campo immediatamente la fede.

Stiamo iniziando un nuovo anno scolastico, ai suoi insegnanti di religione cosa vuole raccomandare?

Che siano, come hanno detto alcuni che hanno rievocato l’immagine indimenticabile di Giovanni Paolo II, soprattutto l’attuale arcivescovo di Cracovia, che siano insieme fedeli a Cristo, fedeli a Dio e fedeli all’uomo. Nell’insegnamento della religione ogni giorno devono dire la loro fedeltà a Dio con il rigoroso rispetto della tradizione che hanno fra le mani e fedeli all’uomo perché tesi a provocare un incontro con questa tradizione e la vita dei giovani di oggi.

Per i tanti giovani di oggi?

Ai tanti giovani di oggi dico che è più intelligente cercare di conoscere il cattolicesimo, per poi magari abbandonarlo criticamente, che impegnarsi in esso sentimentalmente o abbandonarlo in modo acritico, perché rimane nella vita un grumo che non si scioglie mai e che condiziona negativamente anche tutte le altre scelte che si crede di fare liberamente, ma si fanno come ritorsione di questa non assimilata posizione del cattolicesimo.