L'ora della bellezza: racconta la vita

“Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la Sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo”.
(D. Bonhoeffer, La vita comune)
Fonte:
CulturaCattolica.it
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“Professoressa, posso leggere anch’io il mio compito?”.
Conoscevo il contenuto del suo scritto. Le ho detto sì.
Invidio il coraggio di questa mia allieva. Vorrei fosse il mio.
Vorrei imparare la sua forza.
Vorrei, dovesse mai capitarmi di leggere cose “così”, la sua voce ferma, appena appena rotta dalla commozione: racconta la verità di frasi che, prima che dalla penna, si capisce che escono da un cuore che ama.
In classe, la vibrazione dolce e potentissima di quando le parole, sgorgate dal silenzio, lo esprimono ed in esso ritornano per illuminarlo.
In classe, anche oggi, il regalo di un’ora di bellezza “per sempre”…
Vorrei che tutti imparassero ad ascoltare…

Tutto cominciò in una bellissima giornata di luglio. Nell’aria si sentiva il delizioso profumo di fiori appena sbocciati e, camminando per via Magenta, si poteva vedere, nella casa sull’angolo - quella con un grande prato verde - una donna che con un sorriso e tanta cura stava appendendo due bellissimi fiocchi: uno rosa e uno azzurro.
Senza rendermene conto fui chiamata al mondo; ma non da sola. Il destino mi aveva affiancato un simpatico amichetto. Così cominciò il mio cammino di vita, nell’apprendimento e nell’uso del linguaggio. Imparai velocemente a parlare e a camminare: a tre anni ero la “birba” dei miei genitori, che a fatica mi riuscivano a tenere ferma o in silenzio.
Pure mio fratello aveva cominciato a fare qualche passo, anche se non con grandi progressi. Io e il mio dolce amichetto non ci separavamo mai: eravamo sempre uniti. Il nostro rapporto cresceva pian piano, con un graffo, una tirata di capelli, o con un sorriso e una carezza sulla guancia. Strano. Un po’ troppo strano…
“Mamma, Fabio non mi ascolta!”. “No, Sofia, è che qualche volta fa i capricci… Vedrai, tra poco ti ascolterà!”.
Quel giorno però non voleva arrivare. Perché non arrivava?
Con i suoi due occhi sbarrati mi guardava. E non parlava.
Una sera, la mamma mi portò dai nonni e mi disse che sarei rimasta lì una settimana perché lei, papà e Fabio sarebbero andati a fare dei controlli. A fine settimana, mamma tornò a prendermi. Non era più la stessa. Aveva capito che, da quel giorno in poi, avrebbe dovuto combattere una lunga battaglia. A tre anni Fabio ancora non riusciva a formulare una parola intera.
Andammo all’asilo insieme. Che bello! Tanti nuovi amici e persone con cui fare amicizia. Ma io stavo sempre con lui, la mia “dolce metà”: lo coinvolgevo, cercavo di nascondere quella sua fragilità. Così cresceva, tra un appuntamento dalla logopedista e uno dal medico.
La gente intorno a me non capiva quando io e lui parlavamo, forse per il mio sforzo di avere un labiale molto semplice e per la sua difficoltà nel capire. Chissà perché, io e lui riuscivamo sempre a capirci. Un po’ per telepatia, o forse complici di un progetto importante, sapevamo ascoltarci.
Le elementari sono state un passo significativo; i nuovi compagni di classe, però, sembravano non avere la voglia o la pazienza di ascoltarlo, o di creare una via di comunicazione. Così, cominciai a rappresentare in un certo senso la figura della “mamma” che protegge il suo piccolo.
Si può crescere senza amici? Non credo. Essere esclusi fa male a tutti. Essere esclusi significa ritrovarsi in un angolo e guardare le proprie giornate scorrere senza trovarne un senso, rischiando di diventare ostili, ribelli, insicuri, arrabbiati. Noi però un senso lo trovavamo: passavamo interi pomeriggi a ridere, a piangere dal ridere, e a giocare insieme.
Io e lui siamo come due fili: due fili in uno spazio immenso, che corrono paralleli, e non si stancano mai di aspettarsi.
In seconda media, la sua vita cambiò: con un’operazione cambiarono le semplici protesi che usava all’esterno dell’orecchio in un complicato impianto cocleare. Ci volle un anno e mezzo per imparare tutti i suoni. Ma nessuno poteva ridargli i più importanti dodici anni della sua vita. Così dovette imparare a quell’età a dialogare, a distinguere il tono ironico da quello provocatorio.
Fu un’impresa, e ancora oggi ha difficoltà nella lingua.
Vorrei che tutti capissero che tutti hanno dei sentimenti e provano delle emozioni.
Vorrei che le persone che solitamente riteniamo “meno fortunate” non fossero guardate con ribrezzo o con pietà, perché i primi che non vogliono imparare ad ascoltare siamo noi.