UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO - Lione, 25 aprile (Pasqua) – 25 agosto 1943
Il giorno di Pasqua 1943, nel carcere militare di Montluc (Lione) in mano ai nazisti, il tenente André Devigny, torturato e digiuno da diversi giorni, iniziava a scambiare frasi e messaggi con altri detenuti, anch’essi combattenti della Resistenza. Quattro mesi dopo riuscì ad evadere, impresa che tutti ritenevano impossibile.- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO
Lione, 25 aprile (Pasqua) – 25 agosto 1943
Il giorno di Pasqua 1943, nel carcere militare di Montluc (Lione) in mano ai nazisti, il tenente André Devigny, torturato e digiuno da diversi giorni, iniziava a scambiare frasi e messaggi con altri detenuti, anch’essi combattenti della Resistenza. Quattro mesi dopo riuscì ad evadere, impresa che tutti ritenevano impossibile.
Il suo libro Un condannato a morte è fuggito (SEI, 1963) andrebbe rieditato, diffuso e persino adottato come testo di Educazione civica, insegnamento che nel nostro Paese è appena stato reso obbligatorio in tutti gli ordini di scuola.
Nel 1932, nella lettera ad Einstein sollecitata dalla Società per le Nazioni e intitolata “Perché la guerra?”, Freud aveva scritto: “Poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un ‘intolleranza costituzionale”. (Opere Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, vol. XI, p. 303)
Fa un certo effetto ritrovare l’eco di tale “atteggiamento psichico” in un Ufficiale indomito quale fu Devigny. Considero la sua lezione un autentico vaccino contro la follia omicida della psicosi, che oggi impazza quasi ad ogni angolo.
André Devigny (1916-1999) si arruolò nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra. Ferito, entrò come tenente nella Resistenza. Tra le missioni affidategli, vi fu l’uccisione di un italiano collaborazionista a Nizza. Fu scoperto e arrestato il 17 aprile 1943. Tradotto nella prigione di Montluc (Lione), fu condannato a morte. Aveva 26 anni, moglie e tre figli.
In quel carcere, dove morirono più di settemila persone tra militari e civili, trascorse quasi cinque mesi, durante i quali lavorò incessantemente a progettare la fuga: la posta in gioco era la vita. Evase la notte tra il 24 e il 25 agosto 1843, ma venne arrestato nuovamente pochi giorni dopo. Riuscì a fuggire ancora una volta, raggiunse la Svizzera e di lì si trasferì in Algeria per continuare a combattere. Dopo la guerra divenne funzionario dei servizi segreti francesi all’estero fino al 1971 e fu insignito delle più alte onorificenze. Un condamné à mort s'est échappé (Gallimard,1956) è il diario della sua evasione da Montluc.
In quello stesso anno Robert Bresson, che era stato anch’egli prigioniero dei tedeschi, ne trasse il film omonimo, a mio giudizio il più bello tra i suoi capolavori, premiato con la Palma d’Oro a Cannes nel 1957. Il regista volle Devigny accanto a sé sul set, perché insegnasse ad un giovane attore non professionista come tenere in mano un cucchiaio per smontare le assi della porta della cella, come scrivere sul muro della cella e persino come accovacciarsi sul pagliericcio.
A tutta prima, si può pensare che il titolo tolga ogni suspense, ma non è così. La narrazione ha il carattere di un’inchiesta avvincente: come ha fatto Devigny ad evadere da quel carcere di massima sicurezza? Il ritmo serratissimo è un altro merito del libro: pagina dopo pagina, è un continuo susseguirsi di fatti e di imprevisti in un ambiente, quello carcerario, in cui “il nemico mortale è il silenzio”. Infine, l’ultima pagina ci rivela la sorprendente lezione che l’autore ha imparato dalla prigionia e dalla guerra.
Un passo indietro. Subito dopo essere stato arrestato, mentre è ancora nell’auto che lo sta portando in carcere, Devigny non esita ad aprire lo sportello per gettarsi fuori. Viene ripreso, picchiato a sangue e gettato ammanettato in una cella di tre metri per due. Fin da subito si accorge di non essere solo: la comunità di quei detenuti possiede una sorprendente vitalità, così che ben presto riceve diversi aiuti: un pezzo di pane dopo quattro giorni in cui non gli era stato dato nulla da mangiare, uno spillo con cui togliersi le manette nella solitudine della cella, la possibilità di far arrivare lettere ai familiari, e così via.
Un giorno, lo stesso detenuto che è stato il suo benefattore fino a quel momento, si presenta davanti alla sua cella per salutarlo attraverso il “giuda” (lo spioncino, nel gergo del carcere): sta per essere trasferito, forse sarà ucciso, e gli infila sotto la porta qualche pezzetto di zucchero e una tavoletta di cioccolato, esperienza che si rivelerà fondamentale nell’episodio con cui si chiude il libro. Devigny racconta: “s’allontanò senza rumore lasciandomi abbattuto e commosso fino alle lacrime”. Si accorge poi che le assi della porta della cella sono di legno dolce: il manico di un cucchiaio, sapientemente sagomato, sarà sufficiente a farle saltare, grazie a giorni e giorni di lavoro minuzioso e instancabile. Rimosse le assi, può addirittura uscire nottetempo dalla cella, cosa che farà più volte per andare a cercare possibili vie di fuga.
Quando un nuovo prigioniero arriva nella cella accanto alla sua, Devigny rimane sconcertato: costui, anziché rispondere al saluto, gli intima: “Se continua a volermi parlare, la denuncio”. Presto scopre che quell’uomo non ha più legami con familiari o amici, tutto gli è indifferente ed è sul punto di impiccarsi. Devigny non arretra: giorno dopo giorno, i due si parlano sottovoce attraverso i lucernari delle loro celle e alla vigilia dell’evasione, il vicino gli regalerà le proprie coperte per realizzare la corda con cui calarsi. Alla scoperta dell’evasione, pagherà questo gesto con la vita, come anche un altro detenuto, un pastore protestante. A costui Devigny confessa di essere tormentato dal ricordo di quel tale ucciso a Nizza: il fatto che la vittima vestisse abiti civili gli fa sembrare di avere trasgredito le regole della guerra. Quanto a Dio, Devigny, cattolico, annota: “C’erano due parti: la mia e quella di Dio. E dov’era il limite? Non lo sapevo, naturalmente, ma sentivo che il Cielo avrebbe gettato uno sguardo su questa lotta sorda e decisa nella misura in cui io avrei messo sulla bilancia le mie riserve fisiche e morali più nascoste.”
In pieno agosto la Gestapo gli comunica che sarà giustiziato a breve. Gli rimangono pochi giorni per attuare il suo piano. Ma proprio quella sera, senza alcuna spiegazione, un ragazzo di sedici anni viene messo nella sua stessa cella. Devigny è disorientato: l’intruso potrebbe essere una spia, tanto più che ha indosso abiti per metà tedeschi e per metà francesi. Dopo mesi di duro lavoro, ora che ha preparato con cura corde e ganci per scappare, si trova ad un bivio. Che fare? fidarsi dello sconosciuto e coinvolgerlo nel suo piano, o ucciderlo? Gli basteranno poche battute per decidere di farne un partner. La sera successiva, smontate le assi della porta della cella, i due attraversano un vasistas e giungono sul tetto della prigione: dovranno muoversi con estrema cautela. Quando scorge un tedesco di sentinella, Devigny lo elimina strangolandolo a mani nude. Infine, di fronte all’ultimo muro di cinta, si accorge che per scavalcarlo deve salire sulle spalle del complice, e commenta: “Da solo non ce l’avrei mai fatta!”
A questo proposito, un’altra osservazione di Freud risulta molto appropriata. Ne Il disagio della civiltà (1929), egli scrive: “Dopo che l’uomo delle origini ebbe scoperto che dipendeva dalle sue mani - ciò va inteso letteralmente - migliorare la propria sorte sulla terra col lavoro, non poté più essergli indifferente se un altro lavorasse con lui o contro di lui.” (Opere Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, vol. X, p. 589) In fondo, la ratio del quinto comandamento è proprio qui: non uccidere è il cardine di una vita psichica ben costituita, perché può sempre accadere che qualcuno presto o tardi si riveli essere un nuovo partner. Ucciderlo sarebbe privarlo e privarsi per sempre di una tale possibilità.
LA VITTORIA PIU’ BELLA
Il curioso incipit dell’ultimo capitolo ricorda un po’ la saga di Jason Bourne: Devigny riesce ad espatriare grazie ad almeno cinque o sei false identità. Carico di odio contro il nemico, con una “ardente, feroce rabbia profonda”, arriva in Algeria dove frequenta un corso per diventare paracadutista. Ma ecco che l’ultima pagina mostra come il suo pensiero non si sia mai lasciato imprigionare da nulla, nemmeno dall’uniforme che indossava.
Trascrivo qui le ultime righe, che trovo semplicemente insuperabili:
“Il 18 novembre 1944 la battaglia divampava violenta (…) Ero ebbro, ebbro del fumo e del fracasso degli obici, del miagolio delle pallottole, dello scoppio delle granate, della vista dei cadaveri e delle urla dei feriti, insensibile, nella mischia confusa e spaventosa, alla paura e al pericolo. D’improvviso, a tre passi da me, un feldwebel (sergente) alzò le braccia balzando fuori da un buco pieno di fumo nero e pesante:
- Kamarad… (è il tedesco a parlare per primo, ndc)
Finalmente un prigioniero, un prigioniero mio… Piccolo, massiccio nel cappotto sgualcito e coperto di fango, una testa squadrata, occhiali con la montatura d’acciaio… Franzel… no, un altro. Tanto peggio… (per un attimo, crede che si tratti del sadico capo dei carcerieri di Montluc, Klaus Barbie, il boia di Lione, ndc)
D’un salto, con la mascella contratta, la schiuma alle labbra, fui su di lui, il dito contratto sul grilletto della pistola. Un istante rapido come un lampo: lessi nel suo sguardo quell’angoscia che avevo conosciuto così bene… Abbassai lentamente, senza cessare di fissarlo, la canna dell’arma e lo tirai al riparo di un muro…
- Kein essen… no mangiare? (Devigny chiede al prigioniero, ndc)
- Nein…
Feci allora scivolare, in quella mano che tremava, alcune delle sbarrette di cioccolato che avevo in tasca… Forse, fu quella la mia vittoria più bella.”