Praga, le fiamme dell'ideale e i cattivi maestri. Jan Palach
Un congresso internazionale di psicoanalisi (1) è stata l’occasione per visitare la bellissima Praga, immersa com’era nell’afa di agosto. Non conoscevo quasi nulla di quella terra e della sua storia, e pochi giorni non bastano per farsene un’idea precisa. Tuttavia il breve soggiorno non è stato uguale a zero.Anzitutto, la “Città d’oro” appaga subito l’occhio: la sua architettura barocca e secese (liberty), grazie anche alla sapiente opera di restauro, si impone con le eleganti e lussuose facciate di colore rosa, verde pastello e turchese. «Ora che sono lontano, forse per sempre, mi chiedo se Praga esista davvero o se piuttosto non sia una contrada immaginaria come la Polonia di re Ubu». Così scrive A.M. Ripellino in Praga magica, (2) libro eruditissimo e dall’andatura sognante, che vorrebbe ammaliare il lettore e condurlo a lasciarsi ipnotizzare dallo sciabordìo della Moldava.
A me Praga ha fatto tutt’altro effetto: «Praga non molla. Non molla noi due. Questa mammina ha gli artigli. Bisogna adattarsi o… dovremmo appiccarle il fuoco, e così sarebbe possibile liberarci» (corsivo mio). Sono parole di Kafka, diciannovenne, ad un amico. Penso a Il Processo, a Il Castello, al Potere e all’impotenza che accompagna sempre il delirio. Penso a Il potere dei senza potere, la prima opera di Havel edita anche oltrecortina dieci anni prima della “rivoluzione di velluto”, che pose fine al regime comunista nel 1989.
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Visitando Praga, ho fatto una prima scoperta: mi sono accorto che fino a quel momento per me la capitale ceca aveva voluto dire solo Jan Palach. (3)
Avevo 13 anni quando il 16 gennaio 1969 lo studente praghese si diede fuoco nella piazza di S. Venceslao. Morì tre giorni dopo. Aveva 21 anni. La “torcia umana”, come egli stesso si definì, suscitò un clamore mondiale superiore a quello destato pochi mesi prima dall’uccisione di Martin Luther King o dalla protesta degli atleti neri Smith e Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico (1968). La foto del loro pugno alzato aveva troneggiato a lungo nella mia camera di adolescente. Ma il gesto di Palach aveva qualcosa di urtante. Dalle mie letture di questi giorni ho appuntato questa frase, senza purtroppo appuntarne la fonte: «Non era un suicidio per disperazione, non era una resa definitiva, portata alle estreme conseguenze: era un’azione offensiva. Insomma era il gesto di un soldato che si sacrifica per gli altri» (corsivo mio). Contro chi il giovane Palach ha rivolto la sua tragica offensiva?
Qualcuno parlò persino di martirio. Trovo più accorto il giudizio di Luigi Giussani che, citando il XIII capitolo della prima lettera di Paolo ai Corinti, disse: «Io potrei dare il mio corpo alle fiamme, dar via tutti i soldi che ho: non varrebbe niente se non fosse carità, cioè se non fosse amore di Cristo. Cosa vuol dire “non varrebbe niente”? Non sarebbe proporzionato al mio destino, sarebbe sperperare delle energie. Mi ricordo l’impressione che mi ha fatto leggere questo pezzo della prima lettera ai Corinti quando Jan Palach, a Praga, si è bruciato. Si è bruciato per la libertà: è terribile, non è proporzionato! Se uno accetta di essere bruciato per affermare Cristo, allora è totalmente diverso.» (4) Quell’aggettivo, sproporzionato, merita la massima attenzione.
Infatti Jan Palach divenne subito un’icona. Ma di che? La risposta non è affatto ovvia.
Egli lasciò scritto nei suoi quaderni: «Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (giornale delle forze di occupazione sovietiche, ndr). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà.»
Al suo funerale parteciparono 600 mila persone, provenienti da tutto il Paese. Dubček, che era allora Primo Ministro, dichiarò: «Il sacrificio di Palach traumatizzò tutto il Paese. Era una cosa mai accaduta prima in Cecoslovacchia e, per quanto ne so, in Europa». (5) A quel gesto seguirono altre “torce umane”, forse sette, forse molte di più: per vent’anni la notizia non fu diffusa in Occidente. Erano torce scomode per chiunque, non soltanto per i sostenitori del governo Husàk (1975-1989), che cercava di “normalizzare” il Paese.
A Praga ho domandato qualcosa su Palach a due o tre guide ceche, registrando che non gradivano diffondersi sull’argomento. Il più anziano mi ha risposto che nel 1969 molti padri temevano di non vedere rientrare a casa i figli, poiché si era sparsa la notizia di quel “gruppo di volontari pronti a bruciarsi” sull’esempio di Palach e di Thích Quảng Đùc, il primo monaco vietnamita che si era immolato nella piazza di Saigon nel 1963. La foto di Malcolm Browne, che ritrae il bonzo imperturbabile tra le fiamme, aveva già fatto il giro del mondo, aprendo così una via di morte anche in Occidente.
Il padre di Palach, anticomunista e socialista, aveva trasmesso al figlio i propri principi patriottici. Durante il ginnasio, Jan conservava ritagli di articoli di giornale, tra cui questo: «Non basta avere grandi idee, è necessario saperle proporre». A fianco, il suo commento: “e metterle in pratica”. Il suo docente di storia riferì che Jan, iscritto al secondo anno di filosofia, aveva una rappresentazione idealistica della Rivoluzione d’ottobre. Tra gli ultimi giorni del ’68 e l’inizio del ’69, Jan andò a trovare un pastore della chiesa evangelica, la sua maestra delle elementari e un’amica d’infanzia affetta da paralisi. A tutti costoro confidò il suo cruccio per il torpore in cui viveva la società civile cecoslovacca. Lo scrisse anche ad un leader della rivolta studentesca, ma non ebbe risposta.
Sta di fatto che all’indomani del suo atroce gesto nulla cambiò nella situazione politica cecoslovacca: il 21 agosto 1969, anniversario dell’invasione dei carri armati sovietici, la gente scese in piazza, ma rimase sbigottita perché questa volta dovette scontrarsi con poliziotti cechi, non russi: «Questo fu il nostro secondo agosto, e per la coscienza del nostro popolo fu molto più importante dell’agosto precedente, perché allora avevamo dimostrato di tener duro. Dopo, invece, ci siamo arresi». (6)Vent’anni dopo, nel 1989, Vaclav Havel scontò nove mesi di carcere per avere portato fiori sul luogo del rogo di Palach. In quell’anno alcuni affiliati al movimento Charta 77 ricevettero una lettera anonima di uno sconosciuto che minacciava di darsi fuoco «per i diritti umani, la libertà di espressione e la libertà religiosa». Ma «un gesto autodistruttivo di questo tipo non sarebbe stato in sintonia con lo spirito che animava Charta 77. (…) Se l’autore di quella lettera si fosse realmente dato fuoco, più che la radicalizzazione dei movimenti di opposizione democratica, sarebbe stata una minaccia ai principi che riconoscevamo». (7)
La morte di Palach, dunque, è rimasta a lungo un enigma: come giudicare il suo atto? Quando uscirà in Italia, potrebbe esserci di aiuto la ricostruzione contenuta nel film-documentario The Burning Bush (Il roveto ardente) della regista polacca Agnieszka Holland, presentato quest’anno al Festival del cinema di Rotterdam. (8)
Nel prossimo articolo mi occuperò di Jan Hus (1371-1415), il sacerdote e predicatore boemo, nonché padre della lingua ceca, che fu mandato al rogo agli inizi del XV secolo. Ma Palach si appiccò il fuoco da se stesso, imitando il gesto dei bonzi vietnamiti. Non è il medesimo atto. Tra coloro che hanno segnalato o ipotizzato un nesso tra i due roghi, ricordo Francesco Guccini, che a quei tragici fatti dedicò anni fa la sua commovente Primavera di Praga.
Il libro di Ripellino offre decine e decine di pagine con minuziose ricostruzioni di storie di alchimisti e avventurieri, e misteriose leggende come quella ebraica del Golem, ma con mia grande sorpresa non cita né Hus né Palach.
Cogliere i nessi, distinguere e giudicare, senza rinvii o pregiudizi, è un’operazione salubre. Il rogo di Palach fu alimentato… dall’Ideale. Il posto dell’Ideale, non delle fragole evocate dal titolo del capolavoro di Bergman, è l’elemento decisivo che può riassumere o far precipitare la vita di un individuo.
A ben vedere, il gesto di Palach fu rinunciatario e offensivo nei confronti di noi tutti. Facendoci sentire torpidi e tiepidi, occultò la sua rinuncia definitiva: la rinuncia ad infiammare gli animi con il mezzo più civile che l’umanità conosca da che mondo è mondo: la parola, l’azione discorsiva. Palach si arrese di fronte al fatto di non venire ascoltato: un verdetto di impotenza che, a soli 21 anni, registrò come inappellabile. L’effetto fu quello di far piombare tutti nel senso di colpa, come avevano fatto i suoi cattivi maestri vietnamiti.
Trovo pertinente citare qui l’invito che Giacomo Contri rivolse trent’anni fa all’uditorio del Meeting 1983: «Credo di potermi permettere di suggerirvi di usare il “coltello”, cioè tagliare in due le affermazioni che si fanno. Per esempio quella frase, che leggo laggiù su quello striscione, dice: “L'uomo desidera ciò che è più grande di lui; non vale la pena di spendere la vita per meno”. Non dico che non sono d'accordo, dico che una frase di questo genere bisogna tagliarla in due. Perché non è affatto detto che vale la pena di spendere la vita per tutto ciò che è più grande di me.»
Attenzione all’Ideale, dunque.
NOTE
1. Dal 31 luglio al 3 agosto si è svolto a Praga il 48° Congresso dell’International Psychoanalytical Association (IPA), dal titolo “Facing the Pain”, “Affrontare il dolore”.
2. A. M. Ripellino, Praga magica, Einaudi, 1973.
3. Jan Palach (11 agosto 1948-19 gennaio 1969). Per un approfondimento, rinvio al sito: http://www.janpalach.eu/en/default/index. Inoltre, un documento impressionante è l’intervista rilasciata da Palach durante la sua agonia: http://www.meetingrimini.org/news/default.asp?id=676&id_n=7578.
4. L. Giussani, Protesi alla memoria, in "Una presenza che cambia" BUR 27.01.1994. Nella seconda parte di questo articolo, a proposito di Jan Hus, tornerò sulla frase «Se uno accetta di essere bruciato…».
5. A. Dubcek, Il socialismo dal volto umano. Autobiografa di un rivoluzionario, Editori Riuniti, 1996, pag. 282.
6. P. Pithart, Intervista alla Radio Ceca, 5 settembre 2007.
7. La citazione e alcune notizie qui riportate sono tratte dal sito http://www.charta77.org/palachweb/intropalach.htm.
8. http://www.hbo-europe.com/burningbush/#div_content_3