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L’educazione, compito della Chiesa

Autore:
Metropolita Filaret di Minsk
Fonte:
NG Religii - 1 febbraio 2006

Una questione eterna
L’educazione della persona è realmente una questione eterna per il consorzio umano. Per questo vorrei soffermarmi proprio su questo tema: le questioni eterne sono infatti contemporanee di ogni epoca storica.
Oltre alla Chiesa, anche la società laica e lo Stato riconoscono l’importanza vitale del tema dell’educazione della persona; per questo stupisce che nella pubblicistica laica non si definisca con chiarezza che cosa sia la persona e in che cosa consista il processo educativo.
Tentando di fornire una definizione del concetto di educazione, molte opere scientifiche usano termini come «influire», «influenzare» o addirittura «inculcare». Si avverte immediatamente che il soggetto da educare viene visto come materia di un esperimento, come un essere subordinato, a priori passivo.
Eppure, stiamo parlando della persona umana! Di più, oggetto dell’educazione è proprio quanto di più importante possieda l’essere umano, ovvero la sua persona irripetibile. Tra gli intellettuali laici di oggi, tuttavia, non c’è alcuna chiarezza neppure sul concetto di persona.
Le definizioni di persona sono il più delle volte deboli e sfocate; ad esempio, alcune definizioni «scientifiche» del nostro oggetto la individuano come la «portatrice di determinate proprietà» o il «soggetto di rapporti ed attività della coscienza», o ancora come un «sistema costante di elementi socialmente rilevanti, che caratterizzano l’individuo come membro della società»...

Le chiavi per giungere al cuore del problema
Per approfondire il problema, dobbiamo ripristinare nella coscienza dell’individuo e della società la verità del grande valore che le parole possiedono, e dunque anche del valore di quanto esprimono.
Non c’è cristiano che non sappia che «in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1), e che l’uomo «in base alle sue parole sarà giustificato e in base alle sue parole sarà condannato» (Mt 12,37). Sappiamo anche che il primo compito affidato al nostro progenitore era legato alle parole che egli pronunciò, dando il nome a tutta le creature. Le Scritture narrano che il Creatore stesso discese «a vedere come Adamo avrebbe chiamato ogni essere vivente» (Gen 2,19).
Sono le parole stesse ad offrirci una chiave per comprendere il loro significato più profondo. In russo, «nutrire» ed «educare» (pitat’vospitat’) hanno la stessa radice e sono sostanzialmente equivalenti; il profeta Baruc, ad esempio, usa proprio questi termini nel rimproverare i suoi contemporanei, che disprezzano la legge: «Avete dimenticato chi vi ha nutrito, il Dio eterno, avete afflitto colei che vi ha educato, Gerusalemme” (Bar 4,8). Dunque il Signore nutre, e il suo segno sacro educa: accompagna cioè il mistero di Dio, aiuta l’uomo ad accoglierlo, conferisce valore terreno al dono celeste e lo comunica nella sua pienezza.
Questo è il principio della pedagogia divina, che si svela nella domanda più elementare rivolta a Dio, nella preghiera di ogni cristiano: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», cioè «Nutrici»; «Rimetti i nostri debiti… e non indurci in tentazione, ma liberaci dal male», cioè «Educaci», Padre nostro!
Nella sua invettiva, il profeta Baruc si rivolge a delle persone umane, e non a «soggetti di rapporti» o a «sistemi di elementi socialmente rilevanti». Nella Bibbia, le esortazioni a pentirsi e a vivere rettamente si fondano su un principio metodologico, che provo a formulare così: l’unico modo che l’uomo ha per migliorare la propria persona e correggere le storture della propria esistenza, sta nel vivere fattivamente la memoria che la sua dignità consiste nel custodire l’immagine e somiglianza di Dio che porta in sé. Secondo l’espressione di uno scrittore religioso ebraico, la cosa più terribile che il diavolo può fare ad un uomo è indurlo a dimenticare la propria figliolanza divina.
Per questo, per noi è così importante trasmettere fin dalla tenera età alle nuove generazioni una concezione corretta dell’onore e della dignità dell’uomo e del cristiano, senza che in questo vi sia una sfumatura di egoismo e superbia. A questo scopo, gli stessi educatori devono saper discernere con chiarezza il senso di questi concetti, che per natura si escludono reciprocamente.
L’alta dignità e la vocazione divina della persona consistono nella possibilità di acquisire un proprio volto: volto e persona sono concetti equivalenti. Ogni uomo è una persona, ma acquista il proprio volto solo giungendo alla santità.
Mi sembra di poter suggerire che la persona andrebbe considerata come un’espressione triunitaria della natura umana, formata dalla triade spirito-anima-corpo. Ogni violazione dell’armonia formata da questa unità polifonica porta ad un’alterazione della persona – si tratti di una tentazione spirituale, di una schizofrenia intellettuale o di una miopia della forza bruta. Il mondo circostante è stracolmo dei frutti di queste alterazioni, e la pressione delle patologie sui processi di formazione della personalità umana è davvero enorme.

Persona o maschera?
La tendenza della società contemporanea a conferire un peso crescente alla cosiddetta image, ovvero al modo in cui una persona si presenta nell’ambiente circostante, è uno dei sintomi più recenti dell’alterazione prodottasi nell’armonia interiore dell’uomo, fornisce una chiara diagnosi del malessere intellettuale e morale della società.
Si potrebbe ravvisare in questo un’aspirazione naturalissima a salvare delle forme esteriori, o un desiderio di far buona impressione; in realtà, negli ultimi tempi farsi una certa image oppure cambiarsela è assurto a stile di vita, a pretesa dell’uomo di realizzarsi da sé. L’uomo si crea delle vere e proprie maschere, che non di rado nascondono dietro di sé un vuoto profondo.
Non bisogna però pensare che la smania per la propria image sia propria solo della società laica, che un classico della letteratura inglese come William Thackeray aveva definito «fiera della vanità». Anche all’interno della Chiesa un simile fenomeno non è affatto raro: basti pensare alle maschere indossate da chi si atteggia arbitrariamente a starec o sfodera uno zelo pseudoreligioso che «non è secondo ragione»...
Non è un caso che in un libro dedicato al ministero pastorale padre Aleksandr El’čaninov abbia scritto dell’importanza, per parrocchiani e sacerdoti, di non «recitare».
Di norma, la gente si crea delle maschere nella misura in cui non ha una personalità sufficientemente sviluppata secondo l’armonia triunitaria di cui parlavamo prima, e quindi non ancora libera. Infatti, come dice san Paolo nella lettera ai Corinzi, «il Signore è spirito, e dov’è lo spirito del Signore c’è libertà. L’apostolo formula poi il principio di metodo fondamentale di un’educazione cristiana religiosa e morale: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18).
Qui ritroviamo nuovamente la verità inconfutabile, secondo la quale fare memoria di Dio, custodire gelosamente in sé la Sua immagine e somiglianza e imparare a vederla nell’altro, sono i criteri più sicuri per valutare l’educazione autentica di una persona. Nasceranno di qui i frutti di una stabilità sociale, di una morale sana, di famiglie unite e di una dignità della nazione, di uno Stato forte e di un’attività economica provvista di un fondamento etico, e molti altri valori umani ancora, fondamentali per una società matura e sana.

Coscienza, pensiero e giudizio
Nell’Antico Testamento il sacerdote Esdra parlava così dell’uomo al Creatore: «Lo hai educato con la Tua giustizia, gli hai insegnato la Tua legge, l’hai ammaestrato con la Tua ragione, gli dai la morte come Tua creatura, e nuovamente gli ridarai vita come opera Tua » (3 Esd 8,2-13).
In realtà questa è la strada che attende ogni figlio d’Adamo che viene al mondo! Noi sappiamo anche, però, che “la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza dell’uomo» (2 Cor 12,9): quindi, dobbiamo fare in modo che la verità, la legge e la ragione di Dio siano annunciate senza sosta e rivelate ad ogni uomo fin dalla primissima infanzia.
Avendo accennato alla pedagogia di Dio, dobbiamo ora stabilirne anche i fini più immediati, che siamo chiamati a raggiungere nella nostra missione educativa; dobbiamo inoltre scoprire il metodo educativo che contribuisca a farci raggiungere questi fini. La giustizia, la legge e la ragione del Creatore, di cui parla Esdra, si svelano alla persona con l’ausilio di concetti umani paralleli come la coscienza, la capacità di pensare e di giudicare con rettitudine.
Ogni uomo ha esperienza della legge morale innata in lui: è la coscienza, cioè la « comune visione» che la persona e Dio condividono circa la legge della tutela della vita umana, del suo grande valore e dignità celeste. Di conseguenza, educare la persona a questa coscienza è da una parte la cosa più semplice, chiara e accessibile ad ogni genitore o educatore, e dall’altra la cosa primaria e fondamentale nell’educazione religiosa.
In quest’opera non ci sono differenze di carattere confessionale, nazionale o socio-politico: un uomo senza coscienza è altrettanto inviso in Europa che in Asia, in Africa e in America… Secondo le parole di san Paolo, scopo dell’esortazione cristiana è «la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5). Per noi è metodologicamente molto importante questa successione, in cui il cuore puro dell’educatore cristiano e la sua buona coscienza vengono perfino prima del suo credo, la cui sincerità è oggetto della responsabilità individuale dell’uomo al cospetto di Dio.
Non a caso, più avanti l’apostolo sottolinea che, anche al tempo dei primi cristiani, coloro che si allontanano da questi principi «si volgono a fatue verbosità, pretendendo di essere dottori della Legge mentre non capiscono né quello che dicono, né alcuna di quelle cose che danno per sicure» (1 Tm 1,6-7); noi dobbiamo aggiungere che, anche ai giorni nostri, il problema dell’insegnamento religioso all’interno delle comunità ecclesiali e parrocchiali rispecchia non di rado proprio questa dolorosa denuncia di san Paolo.
A questo proposito, all’inizio del XX secolo un pubblicista cristiano notò assai giustamente che, se nel periodo antecedente la rivoluzione nelle scuole e nei ginnasi russi si fosse insegnato in maniera interessante il catechismo, forse non ci sarebbe stata la rivoluzione…
Sempre nella lettera a Timoteo, Paolo sottolinea categoricamente la priorità della coscienza personale sulla fede, e afferma che coloro che hanno ripudiato la coscienza «hanno fatto naufragio nella fede» (1 Tm 1,19). Egli ammonisce poi la Chiesa sul grave pericolo che proviene dal suo interno: «…negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza» (1 Tm 4,1-2). Questi impostori non sono altri che i membri delle comunità cristiane propensi al settarismo, al fanatismo e all’arbitrio, che secondo una calzante definizione dell’apostolo «stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2 Tm 3,7).
Purtroppo l’avvertimento paolino è molto attuale anche ai giorni nostri, quando persone senza sufficiente pratica ed esperienza di pentimento personale, eccessivamente preoccupate di ammaestrare gli altri, pretendono di assumere il ruolo di guide religiose ed educatori spirituali. Di solito, sono proprio il rifiuto e l’incapacità di correggere le storture della propria persona la ragione più profonda di tutte le paure ed umori panici, apocalittici, la cui predicazione sembra esimere i predicatori stessi dal curare le proprie infermità spirituali.

Cogito, ergo sum
La capacità di usare rettamente il pensiero rientra nei compiti più importanti dell’educazione laica e religiosa. Purtroppo questa capacità non è affatto diffusa quanto sarebbe necessario all’interno della società. Sulla scorta delle proprie osservazioni, vari filosofi e teologi sono giunti alla conclusione che la maggior parte della gente si accontenta di uno pseudopensiero incapace di analizzare a fondo la realtà e di concepire aspirazioni e impulsi creativi personali, limitato a una ristretta cerchia di concetti e giudizi. Ne nasce una riduzione della realtà circostante e dell’io, costretto in uno spazio vitale creato da lui stesso; pensiamo, ad esempio, al modo di vivere e agli stereotipi di comportamento propri della cultura di massa, che conducono al livellamento della persona.
L’educazione deve invece guidare la persona ad acquisire una cultura del pensiero, a sviluppare una ragione critica, facendole sperimentare il gusto per l’indagine dei fenomeni della vita sociale, spirituale e civile, per l’analisi delle loro cause ed effetti. In questo senso l’educazione religiosa deve insegnare all’uomo a conoscere se stesso, il proprio cuore e la propria anima.
In altre parole, la religione insegna un metodo per giungere al cuore del nostro «uomo interiore», secondo la precisa definizione di san Paolo; per chi impara a conoscere se stesso, il mondo esterno non rappresenta più un mistero indecifrabile o un’alterità ostile. Non a caso sono divenute celebri le parole del filosofo francese René Descartes: «Cogito, ergo sum».

L’inizio della sapienza
Nelle definizioni sorte nell’ambito della natura del pensiero, c’è una curiosa sfumatura: distinguendo i concetti di ragione e intelletto, i filosofi invitano a concepire la prima come la capacità di acquisire nuove conoscenze, e il secondo come la capacità di lavorare sulle conoscenze acquisite. Sulla scia di questa riflessione, possiamo aggiungere che la sapienza di una persona consiste nel pieno possesso di entrambe queste facoltà.
Secondo la Bibbia, per raggiungere tale sapienza occorrono sia la ragione che la disponibilità del cuore; non dimentichiamo che il giovane re Salomone, dopo aver offerto mille vittime in olocausto, non chiese affatto al Signore la saggezza ma «un cuore docile, per sapere rendere giustizia al Suo popolo e sapere distinguere il bene dal male» (1 Re 3,9).
Questo è in pratica lo scopo principale dell’educazione, secondo la concezione della Chiesa – la capacità di discernere il bene e il male; proprio per questo noi troviamo, nelle Sacre Scritture, definizioni nette e precise di ciò che costituisce oggi il tema nelle nostre riflessioni.
Concludo citando un esempio di autentica educazione, che appartiene alla storia mondiale e alla cultura di tutta l’umanità. «Principio della saggezza è il timore del Signore, saggio è colui che gli è fedele; la lode del Signore è senza fine», dice Davide, che nel corso della sua vita era stato pastore e poi guerriero, profugo e re, musicista e poeta, e infine peccatore penitente e teologo (Sal 110,10).
«Fondamento della sapienza è il timore di Dio, la scienza del Santo è intelligenza», gli fa eco suo figlio, re, sapiente e… anch’egli peccatore penitente e teologo (Pr 9,10).
Già molto tempo prima di loro risuonavano nella Tenda dell’Alleanza le parole di una semplice, povera donna, che piangeva la propria sterilità («Il Signore giudicherà gli estremi confini della terra», 1 Sam 2,10) e l’esortazione del profeta: «Non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze, ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere il Signore» (Ger 9,22).
Lo scopo e la vocazione della Chiesa e dei suoi figli, la loro missione e il loro santo dovere di educare consistono proprio nel contribuire a incarnare queste parole nella vita del nostro tempo, finché c’è ancora tempo.

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