Ciò che succede nel Bacino del Donez è un conflitto senza senso
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La testimonianza di padre Georgij Guljaev ci aiuta a comprendere meglio la situazione della Ucraina orientale. Anzitutto non si tratta di una guerra fra due popoli, ma di una guerra “senza senso”, suscitata “artificiosamente”; non si tratta di liberare una parte di popolo sfruttata da un’altra parte. “Noi eravamo abituati a vivere pacificamente con tutte le nazionalità” e con tutte le religioni. Possiamo credere a padre Guljaev perché dalle sue parole risulta una persona umanamente sana e spiritualmente profonda. Egli non si dichiara per uno dei fronti che si combattono, ma afferma il valore supremo della fede e, di conseguenza del primato sociale della persona e quindi del popolo fedele. Lui, sacerdote ucraino, è in sintonia con lo spirito del Mjadan e nello stesso tempo concorda con “le marce per la pace” e “Le passeggiate della responsabilità” del popolo russo. E’ la stessa mentalità del samizdat che rifiorisce sia in Ucraina che in Russia e ci fa sperare, pur nella trepidazione, sulla vittoria della pace e della responsabilità.
D. Cinque mesi or sono nella diocesi del Doness vi furono combattimenti di massa. Che cosa è cambiato nella vita ecclesiale dopo l’inizio di questi combattimenti?
R. Per la Chiesa del Doness l’anno trascorso fu un tempo di prova per il rafforzamento della nostra fede e dei nostri principi. Sempre, per tradizione, durante la celebrazione della Divina liturgia abbiamo pregato per la pace di tutto il mondo, ma mai con tale ardore come ora; così non abbiamo mai pregato.
Oggi per noi ortodossi è una grande prova sia per l’oppressione sia per il tornaconto di assecondare i politici. Ma la Chiesa in nessun modo può assecondare questa tentazione. Oggi le parrocchie della diocesi del Doness si trovano in ambedue le parti del fronte. Fra noi hanno creato un preciso confine: il blocco della posta, il controllo dei passaporti, perquisizioni. Ma questi confini delle pretese umane, per i cristiani, possono trasformarsi in un dono divino. Nel salmo sta scritto: “del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo ed i suoi abitanti; è Lui che l’ha fondata sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita (22,1). La terra appartiene soltanto a Dio, e noi su questa terra siamo soltanto uomini, responsabili della propria missione.
La Chiesa non si allontana dal suo popolo, anche quando si comporta male, noi siamo parte di esso. Noi sopportiamo il dolore con chi soffre, con chi è afflitto. Nutrire gli affamati, visitare gli infermi, educare alla penitenza necessaria per tutti, indipendentemente dalle proprie idee politiche. Il nostro essere vicini non significa condividere tutto quello che fanno, ma ricordare a quelli che combattono che ci sono altre priorità e orientamenti nella vita. La presenza del sacerdote fra quelli che combattono non significa approvare o consacrare qualche loro azione, ma piuttosto la possibilità di preparare la gente alla morte.
Lo scorso anno è stato per noi un anno di prova, perché noi eravamo abituati a vivere in una regione benestante. Nel Donbass eravamo assuefatti a vivere pacificamente con molte nazionalità, da noi non esistevano conflitti nazionali, da noi semplicemente non esiste la base per un conflitto etico, nessuno, mai opprimeva qualcuno. Vivevano pacificamente greci, ucraini, russi, tatari e ebrei; più di cento nazionalità. Siamo sempre stati orgogliosi di questo. Da noi non esistevano neppure conflitti religiosi.
Noi eravamo familiari con i greco-cattolici del luogo, avevamo rapporti con i protestanti. Nelle nostre iniziative invitavamo sia i sacerdoti cattolici come i rappresentanti dell’islam. Essi erano in minoranza, ma mai erano esclusi dalla nostra attenzione. Quindi ciò che succede oggi nel Donnbass non ha senso. Questo suscita meraviglia perché il conflitto è stato creato artificiosamente.
D. Che riflusso hanno avuto questi avvenimenti sui parrocchiani della Chiesa ortodossa?
R. La Chiesa è formata dalle persone. Per questo quel milione di persone che, secondo i dati ufficiali, fuggirono dal Donbass sono nostri parrocchiani. Fra loro c’erano gente possidente che aiutavano a costruire le chiese, che sostenevano i progetti sociali della Chiesa. Fra di loro c‘erano persone che collaboravano con noi, grazie ai quali abbiamo potuto costruire luoghi di preghiera nelle miniere, negli ospedali e nelle fabbriche. Volevamo essere vicini alla gente e la gente si avvicinava a noi. Ora molte imprese sono state chiuse, i rapporti diventano difficili. Noi riconosciamo il dolore di queste persone, il dolore di quelli che devono trasferirsi altrove, le difficoltà dei rifugiati.
Grazie alle fatiche del metropolita Ilarion, vescovo della diocesi del Donbass, durante i venti anni della sua reggenza, con impegno, fatica e difficoltà, il paesaggio del Donbass è cambiato: praticamente in ogni città è sorta una chiesa. E non si è trattato soltanto di restauri, ma proprio di nuove chiese. Queste chiese furono costruite in luoghi dove prima non vi erano mai state. Ma ora, dove c’è la zona del conflitto, dove passa la linea del fronte queste chiese si sono sottoposte a bombardamenti e distruzioni. Nella regione del Donbass, durante il conflitto, hanno sofferto in modo più o meno grave 62 chiese. Inoltre sono stati completamente distrutti il monastero di S. Iver, la chiesa di S. Giovanni di Kronstadt; molto danneggiate le chiese di Makeevk e Ilovajsk.
D. Per quanto io sappia i sacerdoti non hanno abbandonato i loro posti.
R. Vi sono luoghi dove la gente è evacuata; qui la permanenza fisica è pericolosa. Il sacerdote può essere eroe fino ad un certo punto. Il metropolita, io penso, ha avuto una decisione molto saggia: i sacerdoti dove si svolgono combattimenti vengono trasferiti in chiese di un territorio pacifico dove i sacerdoti passano la maggior parte del tempo; ma periodicamente entrano nelle zone del conflitto e svolgono le funzioni religiose per coloro che vi sono rimasti e pregano nella chiesa semideserta…
Le persone si aiutano vicendevolmente; siamo una parte dell’unica grande Chiesa ortodossa ucraina (la Chiesa ortodossa che dipende dal Patriarcato di Mosca) che comprende più di 11.000 parrocchie. Noi sentiamo il sostegno della preghiera e dell’aiuto materiale dalle varie regioni dell’Ucraina.
D. Di che cosa soprattutto hanno bisogni i credenti del Donbass?
R. Dobbiamo riconoscere che le risorse per i bisogni della gente diminuiscono. Le persone credenti non si preoccupano di una certa povertà: siamo abituati a digiunare; non abbiamo molte pretese per i vestiti. La chiusura di botteghe di moda non ci hanno preoccupato. Ciononostante si sente la mancanza di medicinali. Hanno fatto bene i credenti del Canada a raccogliere denaro per comperare, per noi, l’insulina…
La cosa più triste è che la gente oggi non sa che cosa riserverà il futuro in questo scenario del conflitto. Ci sono state gravi ferite umane; chi ha perso uno dei suoi cari; chi ha perso la proprietà; chi è finito in prigione; ma in questi casi soltanto la Chiesa può indicare quei principi vitali che essa annuncia da due millenni: Cristo e la sua sequela, il perdono, la penitenza, il desiderio di ascoltare un’altra persona e trovare un certo compromesso che possa indirizzare la gente; ecco quello che insegnano i sacerdoti.
Noi abbiamo imparato a pregare ad ogni sparo di fucile e chiediamo reciprocamente perdono in ogni servizio religioso sperando di poterci trovare ancora insieme ella prossima celebrazione. Abbiamo imparato a valorizzare non le cose, ma i rapporti e a donare tutto a quelli he hanno perso e si sono persi. Impariamo a vivere modestamente. Un sacerdote amico mi ha raccontato spesso che quando celebrano le panichide (per i vivi oppure per i defunti) la gente porta prodotti di aiuto umanitario.
D. Oltre alla preghiera voi siete riusciti anche a liberare gli ostaggi?
R. Purtroppo questa missione è andata male. Vi furono alcuni casi di liberazione di prigionieri e di ostaggi, ma in generale manca un contatto. Vi sono determinati interessi di persone determinate in cui noi non siamo iscritti. Questo è il vero problema. Ci sono delle persone che vorrebbero essere aiutati da noi, ma loro decidono tutti i problemi in modo diverso …
I politici di ambedue le parti vorrebbero che noi chiamassimo le cose con il proprio nome. Ma noi non siamo una struttura che appenda delle etichette, noi possiamo dare soltanto un giudizio spirituale. E un giudizio sulla guerra l’abbiamo espresso. La guerra è un’ingiuria intestina.
E il compito delle persone credenti è di pregare per la pace. Aiuti da questa opposizione e da questa distruzione non potranno esserci.
D. Ha cercato la Chiesa di invitare che in questo conflitto ci fosse una soluzione pacifica?
R. Abbiamo tentato; siamo stati invitti a delle tavole rotonde dove erano presenti i rappresentanti di Kiev e del Donbass. Ma il sacerdote ha sempre una sua mentalità, la mentalità evangelica, per cui la nostra mentalità era un problema per molti non credenti. Le persone corrotte e i rivoluzionari erano convinti di vivere eternamente su questa terra. Per questo loro operano con questa esaltazione. Ma non è così, tutto ha termine. E se anche riesci a sfuggire al giudizio umano, c’è sempre il giudizio di Dio. E neppure la morte risolve tutti problemi, ma non fa che proporli …
A mio giudizio avviene oggi l’esaltazione eroica soltanto delle persone che portano le armi e la degradazione demoniaca degli altri. L’uomo credente non può sostenere questa tendenza. Gli ortodossi del Donbass sono egualmente vittime della guerra come i greco-cattolici o i protestanti.
La Chiesa ortodossa ucraina è una struttura che spiritualmente lega il Donbass con l’Ucraina e non permette alle teste calde di dimenticare che oltre al governo vicino o del proprio paese esiste anche un popolo. Verrà il tempo quando le reciproche condanne e pretese saranno ridotte al nulla e noi dovremmo in qualche modo vivere, e guardarci vicendevolmente negli occhi.
D. Come la Chiesa considera il suo ruolo in queste pesanti condizioni in cui si trova il Donbass?
R. Nelle condizioni della guerra informatica ci chiedono costantemente: ma voi con chi siete? La risposta è unica: noi siamo con Cristo. E chi non ha peccato, non diremo che lui ha peccato, ma se uno si comporta bene noi diremo che fa bene. In questo sta il nostro ruolo morale, l’autorità morale. Benché anche noi siamo persone fiacche e deboli e non sempre siamo in grado di dare un giudizio, pure esiste un’intuizione cristiana che ci permette di dire: “Fermatevi perché se fate ancora un passo avanti, sarà una disgrazia”. Purtroppo questa disgrazia è già giunta, ma importante è trovare in se stessi le forze per ritornare a Dio e fermare il conflitto nel Donbass.