Attualità di san Benedetto 3 - Nuove esperienze di umanesimo del lavoro

Massimo Folador, “L’organizzazione perfetta. La regola di San Benedetto. Una saggezza antica al servizio dell’impresa moderna”, Milano, Guerini Associati, 2006, pp 198, euro 19.50


Paolo G. Bianchi, “Ora et Labora. La regola benedettina applicata alla strategia d’impresa e al lavoro manageriale”, Milano, Xenia Edizioni, 2006, pp 154, euro 12,00
Autore:
Rivolta, Guido
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Cosa penserebbe San Benedetto di tutto questo, di questo audace accostamento tra la dimensione comunitaria monastica e quella lavorativa d’impresa ? Quel che si può dire è che già da diversi anni, all’interno della stessa tradizione benedettina, esistono esperienze consolidate - per es. P. Anselm Grun in Germania, nella sua abbazia di Munsterschwarzach e P. Dermot Treget in Inghilterra, nella sua abbazia di Douai - che tentano di mettere in collegamento queste due realtà, apparentemente separate. Inoltre, che questi tentativi non risultino fuori luogo sembra ricordarcelo anche un grande studioso di san Benedetto, Leo Moulin, il quale, a suo tempo, “mettendosi nello stato d’animo di un uomo del nostro tempo, del capo di un’impresa, per esempio”, riconosceva che la Regola si rivelava di una ricchezza insospettata e di una sorprendente attualità. Da un altro punto di osservazione, non si legge, poi, sul manuale di management di Peter F. Drucker che l’etica del lavoro nel mondo occidentale risale a San Benedetto da Norcia nel VI secolo, piuttosto che a Calvino nel XVI secolo, e che “i monaci benedettini consideravano il lavoro manuale nei campi e nelle botteghe artigiane uguale alla preghiera e all’insegnamento” ? Certo, il tentativo di raccordare spirito benedettino e lavoro in impresa non risulta esente da alcuni possibili rischi, da cui gli stessi autori cercano, in qualche modo, di mettere in guardia: indipendentemente dall’essere credenti o meno, la Regola, infatti, può essere intesa o in termini utopistici o, viceversa, in termini meramente strumentali e applicativi, riducendo così, anche in termini di profondità umana, il significato spirituale ed etico, del ‘metodo’ che essa propone. Tuttavia, le esperienze e le riflessioni emergenti da queste proposte risultano senz’altro stimolanti e significative e, in un certo senso, di esse si sente il bisogno in un tempo come il nostro criticamente caratterizzato da una perdita del gusto autentico di lavorare e di amare. Nella loro radice, le crisi che viviamo nella nostra quotidianità -quella del lavoro, come, d’altra parte, quella riguardante la sfera degli affetti- fanno parte di una condizione generale in cui a essere messa in dubbio e privata di contenuto è la nostra stessa soggettività/identità umana, nelle sue costitutive domande di senso e felicità. Invece di un’esperienza unitaria di vita, la nostra persona, frammentata e divisa, vive scissa nelle sue dimensioni: interiorità e azione, verità e amore, agape ed eros, affetti e legami, identità e alterità, religione e scienza, etica e tecnica, fede e ragione, contemplazione e prassi, preghiera e lavoro, visione spirituale e processo materiale, etc. Non era certamente intenzione degli autori affrontare queste impegnative e drammatiche questioni. Tuttavia proprio partendo dalla ‘normalità’ del problema del lavoro e della sua organizzazione, essi, dal loro specifico punto di vista, hanno contribuito a mettere in luce la necessità vitale di un approccio al reale-quotidiano in cui il fare si integri con l’essere, il ruolo con la persona, l’efficienza oggettiva con la realizzazione soggettiva, l’utile e il conveniente con uno sguardo gratuito (contemplativo, etico ed estetico) al mondo. Una volta, scriveva Péguy, i lavoratori “andavano, cantavano”. “Noi abbiamo conosciuto questa pietà dell’opera ben fatta…Durante la mia infanzia ho visto impagliare delle sedie esattamente con lo stesso spirito, con lo stesso cuore e con la stessa mano con cui questo popolo aveva dato forma alle cattedrali… Il piolo della sedia doveva essere ben fatto…Ogni parte non visibile della sedia era fatta esattamente con la stessa perfezione di quella che si vedeva”. Questo modo di lavorare, se mai si è realizzato, risulta realizzabile anche oggi ? In ogni caso, rimane vero che non è possibile ‘umanamente’ lavorare -e, quindi, non può esserci alcun autentico ‘umanesimo del lavoro’- se non a partire da un’esperienza contemplativa della realtà che si traduca ed esprima in un operato, quale suo concreto prodotto e materiale risultato. Mirabile, allora, la sintesi poetica di C. K. Norwid, grande scrittore polacco: “Forma dell’amore è la bellezza. La bellezza desta meraviglia. La meraviglia spinge al lavoro e il lavoro è fatto per risorgere”.