Garibaldi 3 - "Gran cuore, ma niente cervello"
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Fu Garibaldi stesso a riconoscere, in una lettera ad Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell'Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Inoltre, nel suo “Poema autobiografico” del 1862, non esitò a biasimare in più passaggi quei fatti che vanno sotto il nome di “Risorgimento”, e di cui lui era stato uno dei principali protagonisti: “E l’Italia? E’ fatta cloaca, ai piedi/ del più schifoso de’ tiranni”, cioè quello stesso Vittorio Emanuele, a cui lui stesso aveva consegnato il Regno borbonico, e che viene ora descritto come un uomo “con libertade sulle labbra e… in cuore del coccodrillo la verace sete/ dell’isterminio! A dar battaglia ei viene/ a chi del Mondo la prima corona/pose a’ suoi piedi. Ingrata volpe!...”.
E ancora, proponendo un bilancio passivo dell’unificazione italiana, ormai avvenuta: “Tutto è menzogna e privilegio. Un vano/ di libertade simulacro illude le moltitudini ingannate…”.
Ma nonostante cercasse spesso di prendere le distanze dalla nuova Italia, di cui era stato artefice principale, almeno in teoria, insieme al Cavour, la popolarità dell’eroe dei due mondi sbiadì presto, anche al di fuori del Meridione. Racconta un agiografo come Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi” (Laterza), che molto presto per la storia dei Mille, narrata dal Nizzardo stesso, “è difficile trovare un editore disposto a garantire le 30.000 lire richieste dall’autore”. Allora “l’Eroe pensa all’Inghilterra ma la traduzione non trova promotori…Per assicurarne la vendita scende in capo la Massoneria. Secondo le consuetudini dell’epoca, nel 1874 Timoteo Riboldi diffonde 12.640 schede di prenotazione tra gli amici e gli estimatori del Generale”.
Negli ultimi vent’anni della sua vita Garibaldi, che era personaggio piuttosto vanesio, si diede dunque alla scrittura, raccontò la sua vita e le sue imprese, per mantenere vivo il suo mito ed anche per guadagnare dei soldi, di cui era sempre alla ricerca, nonostante gli giungessero spesso graditi doni da ammiratori stranieri: da alcuni inglesi ricevette per esempio nel 1869 un panfilo, il Princess Olga, mentre un tale John Anderson gli versò una cambiale di 5000 lire in oro.
Ma il versamento più cospicuo fu quello che ottenne nel 1875: un dono governativo, “di gratitudine nazionale”, di 2.000.000 di lire offertogli dal governo De Pretis, che gli valse il soprannome di “eroe dei due milioni” da parte della “Civiltà cattolica”, e di “pensionato della monarchia” da parte dei mazziniani.
Un fatto è certo: la fama, al di fuori dell’ufficialità, ormai scoloriva sempre più, ma Garibaldi forse sbagliò nel cercare di mantenerla, e di guadagnare ancora, scrivendo romanzi e memorie.
E’ proprio leggendo quest’ultimi, infatti, con la loro “traballante macchina narrativa”, la “lutulenza alternata all’improvvisa secchezza”, l’ “invadenza e la ripetitività degli squarci polemici”, il “carattere macchiettistico dei personaggi”, le “filippiche antigovernative e le prediche anticlericali” (Mario Isnenghi, “Garibaldi fu ferito”), che il lettore contemporaneo capisce di trovarsi di fronte ad un personaggio imbarazzante, quasi una caricatura.
Da essi infatti traspare l’immagine di un avventuriero inquieto, senza alcuna profondità né di dottrina né di pensiero, ma fanatico, ripetitivo ed intollerante; di un personaggio amante della guerra per la guerra, dell’avventura fine a stessa, che amava ripetere sovente, a suggello di un discorso o di una lettera, frasi inquietanti come la seguente, “La guerra es la verdadera vida del hombre!”, salvo scrivere, due righe oltre, di essere un ardente “pacifista”; di un presunto eroe-pensatore che, secondo una definizione di The Times di quegli anni, “ha rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo che si mescolavano nel suo cervello”.
Traspare, inoltre, l’immagine di un uomo che strapazzò allegramente donne e figli - infatti ebbe “tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti che gli sfornano un bel po’ di figli”, più o meno conosciuti, come nota Gilberto Oneto; mentre Alfonso Scirocco allude alle “facili occasioni” che “da vecchio marinaio” amava cogliere con le donne, numerose, che incontrava nei suoi viaggi, e Luca Goldoni dedica un intero libro alle sue numerose avventure, ribattezzandolo “L’amante dei Due Mondi”-, con la stessa superficialità con cui aveva combattuto e ucciso o con cui aveva elogiato gli omicidi carbonari come quello di Pellegrino Rossi, che avevano contribuito ad impedire che l’Italia conoscesse un’unificazione pacifica e federalista.
Infine, dalla lettura degli scritti di Garibaldi, si evincono altre due caratteristiche dell’eroe, spesso piuttosto silenziate: il suo odio inverecondo e ossessivo per la Chiesa cattolica e la sua assoluta incapacità di un pensiero politico minimamente coerente e fondato (il che lo renderà utile e obbediente di volta in volta agli interessi di Londra, delle logge massoniche, di Cavour e di Vittorio Emanuele).
Basterebbero alcune righe poste da lui stesso a prefazione delle sue Memorie: “In ogni mio scritto io ho sempre attaccato il pretismo, perché in esso ho sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio, d’ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una serie di infimi corollari. Molta gente, ed io con questa, ci figuriamo di poter sanare il mondo dalla lebbra pretina coll’istruzione…Quindi libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell’umanità, cariatide dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata, ove signoreggia la tirannide, si siede tra i servi, e conta nella loro affamata turba… Amanti della pace, del diritto, della giustizia- è forza nonostante concludere con l’assioma di un generale americano: ‘La guerra es la verdadera vida del ombre!’”.
Oppure si possono leggere le sue lettere, in una delle quali definiva Pio IX “quel metro cubo di letame”, invitava a rompere i confessionali, “resi utili a far bollire i maccheroni della povera gente”, e a schiacciare il “verme sacerdotale”.
Nel suo “I Mille”, scritto intorno al 1870, Garibaldi esalta le imprese delle camicie rosse e le pone in contrasto con “la nauseante realtà della società odierna”, a cui il Nizzardo metterebbe fine, come gli sembra possa avvenire in sogno, con la creazione di un dittatore temporaneo, capace di amministrare la giustizia in piazza, in uno stato finalmente senza leggi scritte, senza polizia, senza “sgherri” e senza “preti”, in cui si ode “la parola tolleranza ripetuta da tutti e con rispetto”, tranne, naturalmente, “per i lupi, le vipere e i preti”!
Analoghi concetti si possono trovare in “Clelia, o il governo dei preti”, un altro romanzo del Nizzardo, scritta nel 1869, che Mario Isnenghi considera il modello del romanzo anticlericale di Mussolini, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”.
Scriveva l’eroe dei due milioni, in conclusione di quest’opera - dopo aver deprecato i veneti che non si erano affatto ribellati agli austriaci nel 1866 e avevano accolto con pieno disinteresse alcuni candidati al Parlamento da lui personalmente sostenuti, nel 1867, una volta “liberati”-, descrivendo se stesso: “Odia i preti come istituzione menzognera e nociva…Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri, assassini e considera i preti quali assassini dell’anima peggiori degli altri. Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato ovunque i diritti. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso…Egli è d’avviso che la libertà di un popolo consiste nella facoltà di eleggersi il proprio governo, che secondo lui deve essere dittatoriale, cioè di un uomo solo”.
Nel suo testamento, infine, Garibaldi, che sempre più spesso, come si è detto, lanciava improperi contro l’Italia che aveva contribuito a costruire, e di cui fu anche, più volte, parlamentare ultra-assenteista, chiese di essere bruciato, in ossequio al suo panteismo e invitò i suoi cari a tener lontano “il prete”, che “considero atroce nemico del genere umano”, asservitore degli uomini, e, soprattutto, come aveva scritto altrove, delle donne (le più credulone…).
All’ultimo punto, con la solita lucidità con cui era passato dalla fede repubblicana mazziniana al ruolo di dittatore in Meridione alla fede monarchica, per cambiare ancora, scriveva: “Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori (cioè ad un parlamento, ndr), che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo…Il sistema dittatoriale durerà sinché la Nazione sia più educata a libertà… Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano”.
Questo era l’uomo, che molti italiani, in verità, non amarono. Non lo amarono i contadini, che Garibaldi infatti criticava per la loro inattività rivoluzionaria, né i cattolici, che detestarono la sua avversione violenta alla loro fede, e il suo spirito rivoluzionario, né la gran parte dei meridionali, di cui non fu il liberatore, ma l’affossatore.
Ne riconobbero la pochezza, anche molti altri. Scriveva di lui Proudhon: “Gran cuore, ma niente cervello”, mentre Costantino Nigra lamentava: “Questo Garibaldi è buono solo a distruggere”. Persino uno dei suoi collaboratori più stretti, Francesco Crispi, sosteneva: “La piccolezza della sua mente è una sventura. Grande, omerico sul campo di battaglia, si eclissa nei giorni di pace”.
I suoi libri sono ancora oggi la testimonianza più vera di quest’ultima affermazione.